Una delle pagine nere della storia europea, secondo la comunità internazionale. L’11 luglio del ’95 le truppe serbo-bosniache irruppero a Srebrenica; 40.000 abitanti fuggirono verso la base ONU presidiata da un centinaio di caschi blu olandesi che avrebbero dovuto difendere la città. 7.000 riuscirono a entrare, gli altri si accamparono fuori. All’arrivo delle milizie di Mladic le forze di pace non intervennero; donne e bambini vennero deportati. Poi iniziarono le esecuzioni degli uomini. Oltre 8.000 corpi sarebbero stati seppelliti nelle fosse comuni. La strage – perché comunque la si veda di strage si trattò – spinse l’allora presidente americano Bill Clinton ad intervenire; vennero gli accordi di Dayton che portarono alla divisione etnica del Paese in 2 entità: la Republika Serpska, comprendente anche Srebrenica, e la federazione croato musulmana. Vennero poi anche i bombardamenti della Nato su Belgrado. E secondo alcuni analisti l’entità dei fatti di Srebrenica sarebbe stata amplificata proprio per giustificare un intervento militare del Patto Atlantico. L’ex alto responsabile delle Nazioni Unite Philip Corwin, che si trovava in Bosnia all’epoca dei fatti, sostenne che ciò che accadde a Srebrenica non fu un genocidio, ma solo il culmine di una serie di attacchi e contrattacchi che si protraevano ormai da 3 anni. E che la cifra di 8.000 morti scaturì da un calcolo politico, fra il governo di Sarajevo e le potenze occidentali, per creare un casus belli in funzione anti-serba. Posizioni, comunque, assolutamente minoritarie queste ultime. Quel che è certo è che nel 2004 il Tribunale Penale Internazionale, per l’ex Jugoslavia, definì il massacro di Srebrenica “Genocidio”.
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