L'APPROFONDIMENTO

Allarme denatalità, il demografo Rosina: servono politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro

Alessandro Rosina, Professore di Demografia, esamina le cause e le conseguenze del calo delle nascite nel mondo occidentale

Allarme denatalità, il demografo Rosina: servono politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro.

Il calo delle nascite è una questione che preoccupa profondamente il mondo occidentale. Dopo un primo approfondimento, a distanza di due settimane abbiamo intervistato Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell'Università Cattolica di Milano, per un'analisi a più livelli di questo fenomeno, che inizia da un grande cambiamento in corso nel rapporto tra generazioni ed è aggravato dall'incertezza economica e lavorativa delle nuove generazioni. Ad incidere anche la mancanza di politiche conciliative consistenti, dopo l'ingresso delle donne nel mondo del lavoro.

Il calo delle nascite riguarda tutto il mondo occidentale: a cosa è dovuto? Perché non si fanno più figli?

È necessario fare una premessa: è in atto da tempo un grande processo di cambiamento chiamato transizione demografica. Questo fenomeno ha portato le società moderne e avanzate a ridurre drasticamente i livelli di mortalità rispetto al passato, dove c'erano elevati rischi di morte sia in età infantile che in tutte le fasi della vita. Oggi, un bambino che nasce ha alta probabilità di raggiungere l'età dei genitori, dei nonni e persino superarla. Questo rappresenta un grande successo: la sconfitta, in larga parte, della mortalità prematura. Tale evoluzione ha modificato l'equilibrio nel rapporto tra generazioni. Un tempo, una fecondità di circa 5 figli per donna era necessaria affinché almeno due dei cinque nati arrivassero all'età dei genitori, data l'alta mortalità. Oggi, invece, bastano due figli per garantire un rapporto generazionale equilibrato e sostituire il padre e la madre. La fecondità attuale che mantiene questo equilibrio si attesta dunque attorno ai due figli per donna. Per esempio, l'Italia di fine 1800 aveva una fecondità superiore ai 5 figli per donna. Tutti i paesi che stanno attraversando questa transizione, dai Paesi Europei e occidentali fino all’Africa - dove la transizione è ancora in corso - , stanno convergendo verso i due figli per donna. Tuttavia, l’aspetto imprevisto è che tutti i paesi, alla fine di tale percorso, anziché stabilizzarsi attorno ai due figli, scendono sotto questa soglia. E quando si rimane a lungo sotto questa soglia, come accade da anni in Italia, la popolazione diminuisce perché le nuove generazioni sono sempre meno numerose rispetto alle precedenti. Questo porta anche a un invecchiamento accentuato della popolazione: non solo ci sono più anziani perché si vive più a lungo, ma il rapporto tra anziani che aumentano e giovani che diminuiscono diventa sempre più squilibrato. Questa situazione riguarda molti Paesi Europei e occidentali, ma anche altri come Cina e Giappone. Perché si è scesi sotto i due figli per donna? I motivi sono vari. Un primo motivo è dato dalle incertezze che riguardano le nuove generazioni, le quali hanno aspettative più elevate rispetto al passato: costruire prospettive di lavoro, carriera e benessere almeno comparabili - se non migliori - rispetto a quelle dei genitori. Tuttavia, tutto è diventato più complicato. I percorsi lavorativi sono più incerti, l'inserimento nel mondo del lavoro è più difficile e il mercato del lavoro richiede un continuo investimento nella formazione. Quindi, l'arrivo di un figlio viene sempre più posticipato fino a quando queste condizioni non siano realizzate. Inoltre, le nuove generazioni non considerano l'avere figli una scelta scontata, come accadeva in passato. Oggi, l’avere figli è spesso un desiderio subordinato a condizioni che permettano di garantire sicurezza e prospettive di miglioramento. In mancanza di tali premesse, come nel caso di trentenni ancora non del tutto autonomi economicamente, con prospettive incerte di lavoro e reddito adeguato, questa scelta viene continuamente rinviata. Negli ultimi decenni, l'età media al primo figlio è aumentata in tutti i paesi, e questo fenomeno è attribuibile a diversi fattori. In primo luogo, il prolungamento del periodo di studi e l'ingresso ritardato nel mondo del lavoro hanno contribuito a posticipare questa decisione. Inoltre, la difficoltà nello stabilizzare il proprio percorso lavorativo rende più complicato per i giovani raggiungere l'autonomia economica necessaria per formare una famiglia. Questo è particolarmente evidente in paesi come l'Italia, che ha una delle percentuali più alte di NEET (giovani che non studiano e non lavorano) in Europa. L'aumento dell'età al primo figlio è strettamente legato alle difficoltà delle nuove generazioni nel raggiungere la stabilità lavorativa e l'indipendenza economica. Le condizioni precarie del mercato del lavoro portano molti giovani a rinviare la decisione di avere figli fino a quando non raggiungono una sicurezza economica e professionale. Questo rinvio può spesso trasformarsi in una rinuncia definitiva. Un altro fattore determinante è l'aumento della partecipazione femminile nel mondo del lavoro. A differenza degli anni '50 e '60 - quando era sufficiente il reddito di un solo componente della famiglia, il lavoro era stabile e la pensione certa -, oggi è spesso necessario un doppio reddito per mantenere un tenore di vita accettabile. Le donne studiano più a lungo e spesso raggiungono livelli di istruzione più alti rispetto agli uomini, trovando impiego in settori avanzati dove le loro competenze sono valorizzate. Dal momento che - come dicevamo - per formare una famiglia è essenziale che entrambi i partners lavorino e che almeno uno dei due abbia un percorso lavorativo stabile, quando arriva il figlio sono necessari strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia - come servizi per l'infanzia e possibilità di part-time flessibili - altrimenti chi lavora non fa figli e chi fa figli non lavora. In Italia, la copertura dei servizi per l'infanzia è inferiore alla media europea e il part-time è spesso imposto piuttosto che scelto e reversibile. Questi fattori contribuiscono a una bassa occupazione femminile e a una bassa fecondità. In un contesto come quello attuale in cui entrambi i partner lavorano, è altresì necessario un maggiore contributo maschile nelle attività domestiche, insieme a politiche di congedo di paternità che affianchino quelle di maternità. Dove manca questo sistema di servizi di conciliazione e condivisione delle attività ci si ferma al primo figlio poiché dopo averlo avuto ci si trova in difficoltà ad andare avanti. Infine, il terzo motivo riguarda il costo crescente dei figli. Oggi, crescere un figlio comporta un investimento significativo in termini di formazione e mantenimento di uno stile di vita adeguato. Senza adeguati sostegni economici alle famiglie e ai giovani lavoratori, che spesso iniziano la loro carriera con salari bassi e contratti precari, il peso economico di un figlio diventa insostenibile. Nei paesi dove esistono misure di supporto la fecondità è più alta, vicina ai due figli per donna: come ad esempio la Francia con una media di 1,8 figli per donna. In Italia, invece, la fecondità è tra le più basse d'Europa, con una media di 1,2 figli per donna, a causa di un investimento insufficiente in politiche di supporto alla famiglia e alla natalità.

Spesso si indicano fra le cause della denatalità, lo spettro della povertà e la prospettiva di un futuro non roseo. Però - paradossalmente - i tassi più alti di nascite si registrano in paesi africani. Come si mettono in relazione questi due aspetti?

Anche l'Italia, quando era più povera, aveva più figli: l'Italia di fine '800, degli anni '30 e anche degli anni '50 presentava una natalità più elevata. Avere figli era considerato del tutto normale e scontato. Inoltre, come abbiamo detto, bastava un solo reddito e c'era un modello tradizionale in cui le donne si occupavano dei figli. Questo contesto favoriva naturalmente una maggiore natalità. Da quando l’avere figli è diventata una scelta, questa si deve inserire in modo coerente all'interno della realizzazione personale e lavorativa. Avere figli significa ora anche pensare al loro futuro e investire sulla qualità della loro vita. Tutto ciò ha cambiato radicalmente il significato dell’avere figli e le condizioni in cui operare questa scelta. Noi possiamo confrontare l'Italia di fine '800 o inizio '900 con i paesi africani di oggi; ma se vogliamo confrontare l'Italia di oggi, dobbiamo guardare a paesi come la Francia e la Svezia, dove la fecondità è più elevata nonostante un contesto simile al nostro. In questi paesi, le condizioni per avere una fecondità più elevata sono migliori rispetto all'Italia.

La politica italiana, a differenza di quella francese o svedese, non si è mai occupata seriamente della questione. Solo recentemente il tema ha iniziato a essere affrontato, forse anche con un po' di ritardo. Questo può essere dipeso anche da fattori culturali, come la paura che certe misure potessero essere viste come un'ingerenza eccessiva dello Stato nella vita dei cittadini?

Ci sono vari motivi, uno è questo. Abbiamo a lungo risentito della retorica fascista dello Stato che imponeva scelte. Questo ha portato a riconoscere l'importanza della libertà di scelta nell'avere figli, in contrasto con altri Paesi del mondo, come la Cina, che ha imposto la politica del figlio unico alla fine degli anni '70 per limitare la crescita della popolazione. Lo Stato esercitava una forte pressione sia per avere figli, come nel caso italiano del passato, sia per non averli, come in Cina. La strada giusta, invece, è quella della libera scelta: lo Stato dovrebbe mettere le persone nelle condizioni di fare le scelte che desiderano senza imporre nulla. Gli altri paesi hanno capito l'importanza di creare condizioni favorevoli per chi desidera avere figli, investendo in servizi per l'infanzia e politiche di conciliazione tra vita e lavoro. Questo non solo aiuta le famiglie, ma riduce anche la povertà educativa e favorisce l'occupazione femminile. In Italia, purtroppo, siamo arrivati tardi a questa consapevolezza per via del retaggio del passato in cui lo Stato imponeva il fare figli, e la bassa natalità è rimasta un problema per decenni. In altri paesi politiche lungimiranti hanno permesso per tempo di aggiustare il tiro. Ad esempio la Svezia - che è stata uno dei primi paesi in cui la fecondità è scesa sotto i due figli per donna perché aveva favorito l'occupazione femminile - si è accorta di una forte riduzione della natalità e dei problemi che ne sarebbero derivati, quindi ha investito sui servizi per l'infanzia, sui servizi di conciliazione; arrivando adesso ad avere sia un'occupazione femminile ai livelli più alti in Europa, sia una fecondità più alta rispetto alla media europea. In Italia è invece avvenuto un vero e proprio crollo delle nascite: è da 40 anni, cioè dal 1984, che il numero medio di figli per donna è sotto 1,5 e non è mai risalito sopra questa soglia. La conseguenza è che ora ci troviamo con una popolazione in età lavorativa in diminuzione, mentre cresce quella anziana. Le aziende cominciano a sentire la mancanza di manodopera e figure lavorative, e l'Inps ha problemi a sostenere le spese per pensioni e assistenza. La politica italiana ha spesso ragionato con un orizzonte elettorale a breve termine, invece di pianificare a lungo termine per migliorare le condizioni future del paese. Questo approccio a breve termine ha impedito di agire in tempo sulle leve giuste per contrastare la denatalità e sostenere la crescita economica e sociale.

Quanto tempo ci resta per invertire questa curva e combattere la denatalità? Possiamo ancora farcela?
Abbiamo poco tempo, ma è ancora possibile intervenire. Il problema principale non è solo la bassa natalità, ma la struttura demografica italiana che rischia di diventare troppo compromessa per riuscire a invertire la tendenza. Se la popolazione anziana continua a crescere mentre quella giovanile diminuisce, non solo in età lavorativa ma anche in età fertile, le nascite continueranno a diminuire. Questo perché ci saranno sempre meno persone in età compatibile con la genitorialità. Stiamo entrando in quella che viene chiamata "trappola demografica": meno genitori oggi significa meno figli domani, meno figli domani significa ancora meno genitori dopodomani. Questo circolo vizioso rende sempre più difficile invertire la tendenza e indebolisce progressivamente la base demografica del paese, mentre la popolazione anziana continua a crescere. Inoltre, con l'aumento della popolazione anziana e la diminuzione di quella giovane, avremo meno capacità di produrre crescita e sviluppo economico. Questo scenario comporta una maggiore richiesta di risorse destinate alle pensioni e all'assistenza per una popolazione anziana sempre più numerosa e fragile. Di conseguenza, avremo meno risorse da investire in politiche di conciliazione lavoro-famiglia, formazione dei giovani e transizione scuola-lavoro, indebolendo ulteriormente la possibilità di invertire la tendenza. Se non interveniamo ora, sarà dunque ancora più difficile farlo in futuro, poiché avremo meno risorse e meno possibilità di creare crescita economica. È fondamentale agire subito per evitare che la situazione peggiori ulteriormente e per mettere in atto politiche efficaci che possano invertire questa tendenza negativa.

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