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Alzheimer: campanelli d’allarme e fattori di rischio, nuove speranze con la diagnosi precoce

Alzheimer: campanelli d’allarme e fattori di rischio, nuove speranze con la diagnosi precoce.

Nel mondo il numero di persone a rischio di sviluppare demenza è ampiamente sottostimato e oggi conta circa 416 milioni di casi. Inoltre, il 22% della popolazione mondiale di età superiore ai 50 anni - soprattutto donne - potrebbero beneficiare di strategie di prevenzione che includono interventi e trattamenti in grado di bloccare o almeno rallentare la progressione verso la malattia di Alzheimer e altre forme di demenza. È quanto emerge da un articolo sulla diffusione dei casi di persone affette da Alzheimer nel mondo, pubblicato nell'ambito del progetto 'Alzheimer's value Europe' (Pave). L'unico italiano nel gruppo di autori è il prof. Paolo Maria Rossini, direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell'Irccs San Raffaele di Roma. Benedetta de Mattei lo ha intervistato per capire quali sono i campanelli d’allarme a cui fare attenzione e i fattori di rischio sui cui è possibile intervenire.

Quante persone si ammalano di Alzheimer in Italia?

La risposta è diversa da quella che le avrei dato qualche anno fa, intanto parliamo di demenza di cui l’Alzheimer è solo la più nota. Le persone colpite da demenza in Italia sono circa un milione e duecentomila, la metà colpite da Alzheimer. Il problema è che ne abbiamo altrettante in cui i sintomi sono ancora lievi e la diagnosi ancora non è stata fatta; ogni anno abbiamo nel nostro Paese circa 100.000 nuovi casi. Lo studio che abbiamo fatto segnala infatti un campanello d’allarme in chi fa programmazione sanitaria poiché le dimensioni di questo problema sono probabilmente il doppio di quelle che vediamo clinicamente dunque o si inizia a fare un lavoro serio di diagnosi precoce e quindi di attacco tempestivo alla malattia oppure il problema diventerà sempre maggiore. Tra l’altro in Italia l’80% dei casi viene gestito in casa quindi la malattia coinvolge un numero elevatissimo di persone e questo crea un carico importante dal punto di vista sociale di costi diretti ed indiretti poiché si smette o riduce fortemente il lavoro.

Chi colpisce?

È una malattia prevalentemente femminile (circa 2 su 3) e poiché il fattore di rischio più importante è l’età più la popolazione invecchia più la malattia si manifesta.

A che età esordisce la malattia?

È considerata una malattia della terza e della quarta età quindi, diciamo che dai 65 anni in su ci sono i picchi di maggior rischio. Questa è però una patologia che prima di manifestarsi clinicamente impiega probabilmente 15-20 anni, lavora quindi nel buio, in silenzio depositando sostanze tossiche e distruggendo i circuiti nervosi; il cervello resiste perché è dotato di una sua capacità di riserva che gli permette di reggere fino a un certo punto fino a quando la riserva si esaurisce e cominciano i dolori. Dunque, anche se la malattia si manifesta dopo i 65 anni, nelle persone che saranno colpite da Alzheimer probabilmente già in età non troppo avanzata, intorno ai 40-45 anni, la malattia avrà cominciato a procurare danni progressivi.

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Quali sono i primi campanelli d’allarme?

Intanto la storia familiare, è bene quindi guardare alle generazioni precedenti, magari colpite da malattie chiamate un tempo anche come arteriosclerosi. Se so di avere in famiglia diversi casi significa che c’è una predisposizione geneticamente determinata e dunque devo fare un po’ di attenzione. E poi chiaramente le piccole dimenticanze che abbiamo invecchiando possono rappresentare qualcosa di significativo se ci si presta attenzione poiché scordare dove ho messo gli occhiali è normale dopo una certa età ma se si alterna ad altre cose come dimenticare impegni importanti a cui tengo, appuntamenti di lavoro o di vita sociale, momenti in cui sono disorientato o non ricordo dove ho parcheggiato la macchina piuttosto che il PIN del cellulare o del bancomat sono segni che uniti alla storia familiare ci devono portare a contattare un centro esperto per cominciare a fare gli esami necessari.

Quali sono gli esami da fare in questi casi?

C’è una specie di piramide, si comincia con i primi che sono comunque molto importanti, che sono i test neuropsicologici che si fanno con carta e matita e di cui ce sono diversi tipi, da quelli più semplici, che durano 15 minuti e possono esser fatti anche dal geriatra o dal medico di medicina generale e che servono a fare screening ma non fanno diagnosi, a quelli più completi che durano circa 2 ore ed esplorano tutte le funzioni cognitive: dal linguaggio al calcolo, ai vari tipi di memoria, all’orientamento, alla capacità di risolvere i problemi; questi esami sono invece svolti da centri esperti di neuropsicologia che sono in grado di porre un dubbio diagnostico. Anche l’elettroencefalogramma che -con metodiche di analisi moderne- esplora le connessioni cerebrali, può fornire importanti e precoci informazioni. Se i test e l’EEG sono normali, in genere ci si ferma mentre -laddove risultassero alterati- si va avanti con esami di immagine come la risonanza per vedere se vi è una degenerazione del cervello. Poi si sale ancora di livello eventualmente facendo una PET per misurare il flusso di sangue perché se in una zona del cervello ci sono tanti neuroni morti quella zona non consuma energia e quindi non succhia sangue.

Quale è la cura?

Una cura ad oggi purtroppo non esiste, ci sono solo delle cure sintomatiche che sono quelle che noi attualmente prescriviamo con dei farmaci che aiutano ma non cambiano nulla nella progressione della malattia. I farmaci sperimentali funzionano ma abbiamo visto che se dati quando i sintomi sono ormai conclamati la clinica non cambia, il che probabilmente significa che bisogna intervenire ben prima, in una fase molto precoce e in quel caso forse qualcuno dei farmaci che abbiamo sinora escluso dicendo che non era efficace potrebbe invece funzionare

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È a capo di due grandi progetti che puntano alla prevenzione perché è così importante la diagnosi precoce?

I due progetti sono INTERCEPTOR finanziato in Italia da AIFA e dal Ministero della Salute ed AI- MIND finanziato dalla comunità europea. Entrambi mirano a mettere a punto uno strumento per diagnosi precoce. La diagnosi precoce è molto importante, innanzitutto perché si possono ridurre o eliminare quei fattori noti che aumentano il rischio di malattia o ne accelerano il decorso. È evidente che oggi si arriva troppo tardi a una diagnosi di demenza e che non sono stati ancora messi a punto metodi per la precoce identificazione degli stadi iniziali (prodromici di malattia) che sono proprio quelli che maggiormente si prestano e si presteranno a interventi preventivi, terapeutici e riabilitativi. Le implicazioni dello studio sono molto rilevanti e avranno un significativo impatto sull'organizzazione assistenziale, sulla ricerca clinica in Europa, sulle attività delle autorità regolatorie per il farmaco e, cosa più importante, sui malati e le loro famiglie, rappresentando una base e un punto di partenza per future strategie di contrasto contro questa terribile malattia.

Quali sono i fattori di rischio su cui si può intervenire?

- La sedentarietà – fare tutti i giorni un’oretta di ginnastica si è dimostrato essere un fattore protettivo della malattia.

- L’obesità

- Il fumo

- Un diabete non controllato

- Una cardiopatia non controllata

- Pressione arteriosa elevata

- Patologie endocrine, in particolare della tiroide

Questi sono tutti fattori di rischio dimostrati modificando precocemente i quali si abbatte di circa un terzo il rischio di malattia o si rallenta in modo significativo l’evoluzione. Per cui oggi con una diagnosi precoce, ed un intervento su scala nazionale, modificando nei soggetti che risultano a rischio questi fattori già si potrebbe intervenire sulla malattia aspettando che arrivi il farmaco in grado di modificarne il decorso.

Benedetta de Mattei

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