“Io la giro, e le attizzo con le molle il fuoco sotto, finché stride invasa dal color mite e si rigonfia in bolle; e l'odor di pane empie la casa...'. Così il romagnolo Giovanni Pascoli canta la piadina, una delle ricette più tipiche e antiche delle nostre terre. Sottile o spessa, formato maxi o mini, la abbiamo sempre messa sotto i denti, di come chiamarla non ci siamo mai preoccupati più di tanto. Esiste però una querelle, che va avanti da almeno due anni e che dovrebbe concludersi il mese prossimo a Roma, addirittura davanti al Ministro delle politiche Agricole. Sono i produttori riminesi a rivendicare l’originalità e il riconoscimento della loro piadina tipica. La nostra è quella sottile e larga - dicono - da non confondersi con quella più piccola e spessa di altre zone della Romagna. Esistono quindi due piadine “sorelle” che vivono, per il momento, da “separate in casa” e di cui si richiedono due distinti marchi IGP (Identificazione Geografica Protetta). Gli ingredienti sono pressoché gli stessi, farina, un pizzico di bicarbonato di sodio, strutto in quantità variabile a seconda delle zone, sale e acqua. Ma è dopo avere amalgamato l’impasto ed essere arrivati alle caratteristiche pagnottine che cominciano le differenze. La piadina riminese va stesa sottile sottile, lo spessore è al massimo di 2 o 3 mm. Il diametro, altra caratteristica doc, deve essere di almeno 23 cm per arrivare fino a 30. Il risultato è una sfoglia estremamente malleabile, da abbinare ai cibi più svariati, chiusa a cassone o arrotolata. Invece la tipica piadina “romagnola” è spessa almeno 5 mm, e di grandezza più contenuta. Più laboriosa logicamente la cottura, almeno 2 girate per lato suggeriva in passato l’azdora. Una volta scaldata è più difficile piegarla, consuetudine e praticità consigliano di tagliarla in due parti. Si può gustare da sola, oppure abbinarla a salumi, formaggi, verdure gratinate e a tutto quanto il palato vi suggerisce.
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