Il nome di Suu Kyi trionfa sul silenzio cui la dittatura birmana da mezzo secolo condanna un intero paese. Si è appena votato in Birmania, in un clima di intimidazione e senza alcuna garanzia dei diritti, in pratica elezioni farsa per legittimare un potere abusivo, ma nonostante la paura non solo i sostenitori di Suu Kyi, il popolo intero è sceso in strada. E’ oggi la festa. Una grande festa. Questa donna è un simbolo, è una speranza. Premio nobel per la pace nel 1991, dall’88 ha scelto di consacrasi alla causa della democrazia in un paese retto da una giunta militare che si clona al suo interno. Una realtà orwelliana dove lei, animata da una fede laica, figlia del grande Aung San, considerato il padre della patria, da più di 20 anni combatte dall’interno. E’ una lotta non violenta, basata sulla testimonianza. Suu Kyi e’ un cuneo nella ruota dentata dei generali, anche se non ha soldati. Ha rinunciato alla sua vita sicura in occidente, dove fino all’88 aveva un lavoro, una famiglia: un marito due figli, ha accettato serenamente la prigionia per anni perché i tempi delle nazioni sono diversi da quelli della vita degli uomini, come lei dice. E’ sicura di vincere. Nel nostro mondo impoverito è un esempio di globalizzazione dei diritti. Siamo abituati a pensare alla globalizzazione solo in termini di interessi, di merci, lei ci insegna e personalmente me lo ha detto che quando si aiuta un popolo a cercare la sua strada verso la democrazia si fa qualcosa anche per la propria democrazia. La sua liberazione di oggi non cambierà la situazione in Birmania, la giunta al potere è forte, con forti appoggi internazionali, soprattutto di Cina e India, ma questa è una spallata, un colpo forte al cuore. >> Aung San Suu Kyi libera: intervista esclusiva del 1998
Carmen Lasorella
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