20 luglio 1969. “A Houston, quella sera, non si vedeva la Luna. Era coperta da nubi fitte, nuovamente gonfie di pioggia. Alle nove e mezzo il Centro Controllo annunciò che mancava circa un quarto d’ora all’apertura dello sportello. Allora nell’auditorium ci mettemmo a fissare l’enorme schermo dove si avvicendavano, allineate, le informazioni dei cervelli elettronici. Quella che ci interessava era al penultimo rigo, dove stava scritto PLSS. Significa: Post Landing Survival System, ed è in sostanza il contenitore di ossigeno che gli astronauti si attaccano dietro le spalle e poi mettono in funzione al momento in cui la cabina del Modulo Lunare viene depressurizzata e lo sportello si apre. Accanto alla parola PLSS leggevi sei zeri: ma alle nove e quarantacinque l’ultimo zero divenne un uno e poi un due e poi un tre e i secondi divennero con velocità pazza minuti e sapemmo che la cabina era stata completamente depressurizzata, lo sportello aperto.” Così Oriana Fallaci nel suo libro “Quel giorno sulla luna” racconta la realizzazione del sogno americano, un sogno favorito dalla guerra fredda. Per gli Stati Uniti era necessario dimostrare ai sovietici che la corsa allo spazio non era ancora finita. Quattro decenni dopo la NASA sta ancora pensando alla Luna: non vi mette piede dal 1972, anno della soppressione del Programma Apollo. Da allora l'uomo è rimasto quasi sempre entro i confini dell'atmosfera terrestre: satelliti, stazioni orbitanti e Space Shuttle, ma niente Luna. Anche perché la Nasa, lontana dai successi mediatici degli anni '60 , oggi si trova costretta a fare i conti con problemi tecnici e di bilancio.
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