Comitato Uno di Noi: L'alternativa dono, il parto in anonimato

Comitato Uno di Noi: L'alternativa dono, il parto in anonimato.


Non v’è dubbio che l’aborto non sia un fenomeno recente ma antico; moderno è semmai lo sforzo di alcuni ordinamenti giuridici di volerlo legittimare, nonostante le evidenze scientifiche dimostrino che la vita ha inizio con il concepimento, nonostante siano notori i danni permanenti che l’esperienza dell’aborto volontario lascia sulle donne che vi sono ricorse e nonostante, da ultimo, non meriti spiegazioni l’importanza sul piano sociale di favorire quanto più possibile la natalità.
Ma se l’aborto è purtroppo una pratica antica, antichi sono anche i rimedi che, già nei secoli passati, si è cercato di mettere a disposizione di tutte quelle donne che per età, condizioni sociali o perché vittime di violenza (allora non vi erano strumenti diagnostici in grado di investigare preliminarmente la “normalità” del nascituro) non erano disposte a fare da madri a quei bambini, senza per questo lasciare come unico rimedio l’aborto.
Prima fra tutte la cosiddetta “ruota degli esposti”, che era “una bussola girevole di forma cilindrica, di solito costruita in legno, divisa in due parti chiuse per protezione da uno sportello: una verso l'interno ed un'altra verso l'esterno che, combaciando con un'apertura su un muro, permetteva di collocare, senza essere visti dall'interno, “gli esposti” ossia i neonati abbandonati. Facendo girare la ruota, la parte con l'infante veniva immessa nell'interno dove, aperto lo sportello, si poteva prendere il neonato per dargli le prime cure. La prima "ruota" compare in Francia, nell'ospedale dei Canonici di Marsiglia nel 1188 mentre In Italia, secondo la tradizione, Papa Innocenzo III, turbato da ricorrenti sogni in cui gli apparivano cadaveri di neonati ripescati dalle reti nel Tevere, istituì una "ruota" nel 1198 nell'ospedale di Santo Spirito in Sassia” (fonte Wikipedia).
Non è quindi un caso se in Italia tanti portano il cognome “degli Esposti” o “Esposito”, così come Diotallevi, Diotaiuti, Pregadio, o, qui dalle nostre parti, Casadei che significa “casa di Dio”, dato che molte di queste “ruote” erano inserite all’esterno di ospedali religiosi. Questi cosiddetti “trovatelli” venivano poi dati in adozione allo stato neonatale a coppie che, allora come ora, desideravano essere genitori ma non riuscivano ad avere figli propri o semplicemente, pur avendo già figli propri, volevano aprire generosamente a questi piccoli più sfortunati le porte della loro famiglia.
Ciò che nel Medioevo erano le “ruote degli esposti” oggi sono le “culle per la vita”, cioè culle termiche dotate di un allarme acustico attivato da un sensore che avvisa tempestivamente il personale medico della presenza di un neonato; in Italia sono sempre più numerose e sono presenti in quasi tutte le province nei pressi dei maggiori ospedali (www.culleperlavita.it). Questi strumenti sono oggi utilizzati prevalentemente da donne immigrate che, non essendo in regola con il permesso di soggiorno, temono di farsi ospedalizzare per il parto, pur essendo prevista e regolata la possibilità di partorire in anonimato.
Infatti, la soluzione meno traumatica e più libera per la donna che non intende fare da madre al bambino che ha in grembo, ma che nemmeno è disposta per questo ad ucciderlo, vivendo poi il resto della sua vita con questo dramma, è proprio il “parto in anonimato”, disciplinato dalla vicina Italia con il DPR 396/2000 all’art.30 (per ulteriori informazioni leggasi: https://www.sdb.unipd.it/sites/sdb.unipd.it/files/Parto%20in%20Anonimato.pdf).

È infatti sufficiente che la madre, pur partorendo in ospedale, quindi in tutta sicurezza, non proceda contestualmente con il riconoscimento del figlio all’anagrafe, o abbia comunicato all’atto del ricovero di voler procedere con il parto in anonimato, rendendo così quel bambino immediatamente adottabile da una delle tante coppie idonee, già in lista d’attesa. Il bambino viene cioè lasciato nell’ospedale in cui è nato e la madre biologica può avere fino a due mesi di tempo per ripensarci, poi non saprà più nulla del figlio che ha messo al mondo. In Italia nell’atto di nascita viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata” ed il suo nome sarà inserito solo nel “certificato di assistenza al parto” che potrà essere rilasciato a chi ne abbia interesse solo decorsi 100 anni dalla sua emissione. In altre parole il parto in anonimato, potenzialmente praticabile anche a San Marino, consente:
- alla donna di non sopprimere il figlio indesiderato, dando così al bambino la possibilità di continuare la sua vita fuori dal grembo materno; - a dei coniugi, che magari non riescono ad avere figli, di poter finalmente coronare la propria naturale vocazione alla genitorialità, dando a quel bambino indesiderato tutte le cure e l’affetto che merita.
Se anziché donarlo alla nascita la madre di Steve Jobs avesse deciso di sopprimerlo, il mondo non lo avrebbe mai conosciuto e, forse, il mondo non sarebbe nemmeno lo stesso. Ogni vita umana ha un valore infinito! Nessuno vuole imporre alla donna di essere madre contro la sua volontà, ma nemmeno si può accettare che abbia su quel figlio indesiderato un diritto di vita o di morte! Esiste una terza opzione, che è quella del parto in anonimato.
Qualcuno potrebbe replicare che nella piccola San Marino un parto ospedalizzato difficilmente può garantire l’effettivo anonimato della madre verso la coppia adottiva e, in prospettiva, verso il figlio adottato. Ma così come San Marino è aperto all’adozione internazionale attiva non si vede perché non possa consentire l’adozione internazionale passiva, vale a dire la possibilità di dare in adozione i bambini nati a San Marino da madri anonime solo a coniugi residenti all’estero, magari anche escludendo la vicina Italia.
Se poi a fronte degli innegabili benefici di questa soluzione rispetto a quella abortiva (non solo per la vita del bambino ma anche per la salute psico-fisica della madre) qualcuno avesse ancora la velleità di rispolverare il tema vetero-femminista della “donna-contenitore” (della serie: “l’utero è mio e lo gestisco io!” di sessantottina memoria), vale a dire che la vita di quel bambino, unico ed irripetibile, conta addirittura meno delle settimane di gravidanza ancora necessarie per assicurargli una autonoma sopravvivenza, per di più in un Paese come San Marino che garantisce alle gestanti ogni forma di assistenza medica gratuita e di salvaguardia lavorativa, beh allora sarebbe la prova evidente che l’interesse primario di chi obietta non è realmente la tutela della donna e della sua libertà, ma la vittoria dell’ideologia contro ogni buon senso!

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Comunicato stampa
Uno di Noi

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