È stata appena pubblicata la lettera della Congregazione per la Dottrina della fede “Samaritanus bonus”, che tratta il valore della vita umana e del tema drammatico del «fine vita». Si tratta di un documento magisteriale, che indica la strada adeguata per rispettare la vita, riconoscendone la dignità e il valore assoluti, in ogni situazione e condizione, e così preservandola da ogni manipolazione e riduzione. Viene così attuato l’insegnamento costante della Chiesa, e realizzato quel rifiuto della «cultura dello scarto» che a volte sembra prevalere nel giudizio di tanti. In un breve comunicato non è possibile dare ragione di tutto l’insegnamento contenuto, per cui vale l’invito a leggere l’intero documento, tenendo conto che proprio di una lettura seria e approfondita ce ne è bisogno, in questo tempo che facilmente si accontenta delle semplificazioni giornalistiche, evitando lo studio serio e «simpatetico». Credo, sinceramente, che la pubblicazione di questo documento in questo periodo segnato dalla vicenda della pandemia sia un formidabile aiuto per riflettere su quanto sta accadendo, sul senso del vivere e del morire, sull’urgenza di riscoprire i pilastri fondamentali di una cultura umana che metta al centro la persona, il suo bene autentico e la sua dignità. “Esercitare la responsabilità nei confronti della persona malata, significa assicurarne la cura fino alla fine: «guarire se possibile, aver cura sempre (to cure if possible, always to care)». Quest’intenzione di curare sempre il malato offre il criterio per valutare le diverse azioni da intraprendere nella situazione di malattia “inguaribile”: inguaribile, infatti, non è mai sinonimo di “incurabile”. Lo sguardo contemplativo invita all’allargamento della nozione di cura. L’obiettivo dell’assistenza deve mirare all’integrità della persona, garantendo con i mezzi adeguati e necessari il supporto fisico, psicologico, sociale, familiare e religioso…” La passione per la cura della persona, quella passione che ha fatto scegliere la parabola del Buon Samaritano come icona per comunicare l’intenzione profonda del documento, porta a conclusioni di cui tenere conto, e che non possono essere scartate per ragioni ideologiche. Se è vero che «nella sofferenza è contenuta la grandezza di uno specifico mistero che soltanto la Rivelazione di Dio può svelare» è anche vero che le risorse della ragione rettamente usata consentono un approccio al problema che sappia tenere conto di tutti i fattori in gioco. Un acuto studioso di questioni bioetiche, il Prof. Roberto Colombo, così sintetizza l’apporto di questo documento, indicando i «sì» che afferma e i «no» che lo contraddistinguono: «I tre “sì” sono: quello alla doverosa rinuncia al cosiddetto “accanimento terapeutico” (nel significato originale e autentico del termine: “ostinarsi nel praticare terapie inappropriate” rispetto allo stato clinico del paziente e perfino onerose e dannose per lui; e non, invece, in quello surrettizio di “prosecuzione delle cure fisiologiche essenziali” per le funzioni vitali del malato); quello alle “cure palliative” (in riferimento all’assistenza non strettamente terapeutica – di natura medico–infermieristica, psicologica, spirituale e sociale – rivolta a migliorare e accompagnare la vita del paziente inguaribile e del disabile cronico grave, ma senza, in alcun modo, porre in essere azioni od omissioni volte ad abbreviarla intenzionalmente); quello alla “sedazione” farmacologica, limitatamente ai casi in cui questa si renda necessaria per alleviare il dolore incoercibile e non sia la condizione scelta intenzionalmente per sopprimere la coscienza neuropsicologica prima di attuare un protocollo clinico volto a causare la morte del paziente. I tre “no” riguardano: l’eutanasia, intesa come ogni azione od omissione che di sua natura e nelle intenzioni di chi la decide, la attua o la consente conduce alla morte anzitempo del malato o del disabile grave in qualunque stadio della sua vita post–natale: dal neonato e dal bambino affetti da malattie congenite inguaribili all’adulto con una grave patologia cronica o degenerativa per la quale non esiste una terapia efficace, sino al paziente in fase terminale di malattia, all’anziano non più autosufficiente fisicamente e cognitivamente e a chi si sta avvicinando alla morte; il “suicidio medicalmente assistito”, in tutte le situazioni e condizioni in cui si può presentare la richiesta da parte del paziente stesso, sia essa contestuale o pregressa (la cosiddetta “disposizione anticipata”), condivisa o non condivisa da congiunti, medici, infermieri, legali e altri soggetti coinvolti nella decisione; la sospensione di idratazione e nutrizione nei soggetti in “stato vegetativo” o “di minima coscienza” e in altre condizioni assimilabili a queste per cronicità e inguaribilità, per le quali la somministrazione di acqua, elettroliti e sostanze alimentari risulta efficace nel mantenere le funzioni fisiologiche vitali e l’omeostasi del corpo.» Non è chi non vede come sia in atto un cammino e una proposta che indicano il significato della centralità della persona umana e la sua indisponibilità rispetto ad ogni tentativo di oscurarne il valore assoluto. La cura che è necessario prendere per ogni uomo (ricordo sempre con commozione quando s. Giovanni Paolo II diceva che accanto a un uomo che soffre ci vuole un altro uomo) indica il grado di civiltà di ogni società umana. E per noi, fieri di abitare l’«Antica terra della libertà», questo compito risulta affascinante ed esaltante. E apre certamente la strada a una nuova epoca nella educazione, in particolare dei giovani.
Don Gabriele Mangiarotti