Rete sul problema affitti
Da circa un anno e mezzo, nell’opinione pubblica ha grande risalto il tema del caro-affitti. Il problema sta assumendo contorni di estrema gravità, al punto che può ormai parlarsi di una vera e propria crisi abitativa. Le forze politiche, fra cui RETE, che hanno inteso sottoporre la faccenda all’attenzione del Governo, hanno proposto interventi vari e differenti fra loro. Come ho già avuto modo di dichiarare pubblicamente, tuttavia, ciò che manca non sono le idee (quelle sono tante, ancorché a volte confuse), bensì una reale e approfondita conoscenza del patrimonio immobiliare esistente e, dunque, delle reali dinamiche del mercato degli affitti. Non per crassa pigrizia o ignoranza di chi si sforza di immaginare soluzioni, ma perché – semplicemente – i dati non vengono raccolti né elaborati. In tal senso, l’unico emendamento della maggioranza (bontà sua!) che ci è stato accolto sul tema è stato quello per l’istituzione di un osservatorio stabile sul mercato immobiliare, anche se non ho notizie circa l’attuazione di quell’articolo di legge. Attendiamo fiduciosi. I pochi dati significativi li abbiamo ricevuti tramite interrogazione, con cui avevamo chiesto notizie intorno alla quantità di immobili sfitti ad uso residenziale abitabili attualmente presenti e l’andamento dei prezzi del mercato degli affitti. Alla prima domanda il governo non è stato in grado di dare una risposta, mentre alla seconda domanda ha fornito dati che sono credibili dal punto di vista della tendenza, più che dei numeri assoluti. La mancanza o la scarsa qualità dei dati segnalano di per sé la scarsa attenzione al problema da parte dell’amministrazione e di chi avrebbe il compito di agire. Quel che emerge è che, nel triennio 2014-2017, i prezzi dei nuovi contratti sono schizzati di circa il 70%, mentre a partire da allora l’aumento è stato “limitato” a circa il 10%, in linea con l’inflazione di quel periodo e, anzi, qualcosa di meno. Non dovrebbe tuttavia stupire che, sebbene l’impennata sia cominciata quasi dieci anni fa, se ne avvertano oggi gli effetti più ampi: i contratti d’affitto, di norma, hanno una durata medio/lunga, e dunque un’impennata sui nuovi contratti, consolidandosi, tende ad avere effetti sociali molto estesi a mano a mano che vanno a scadenza i contratti precedentemente stipulati. I motivi reali di quella impennata, totalmente sconnessa dall’inflazione minimale di quel periodo, non sono noti: è chiaro, in linea di principio, che tale effetto può essere stato determinato solo da uno squilibrio – repentino, per di più – fra domanda e offerta di immobili in affitto. La domanda, come dimostra la quantità di contratti stipulati, è in effetti cresciuta significativamente, ma meno dei prezzi; tuttavia, poiché non vi sono stati elementi endogeni come guerre o catastrofi naturali a ridurre l’offerta di case, né una crescita straordinaria e improvvisa della popolazione residente, è pressoché impossibile, senza un’indagine puntuale, comprendere il motivo dell’incapacità dell’offerta di tenere il passo della domanda. Questo fa riflettere: dallo scoppio della bolla immobiliare intorno al 2008-2009, infatti, nel nostro Paese s’è ripetuto in ogni lingua che esistevano migliaia di case sfitte, pronte ad essere abitate. Le cifre oscillano di ordini di grandezza in base all’audacia e alla fantasia dell’oratore: chi vola alto spara 10.000, i prudenti sostengono 1.000, altri 6.000; un Segretario di Stato in pectore, in una recente conferenza stampa, si è posto a mezza via e ha indicato la cifra di 3.500. La realtà è che, per quanto ne so io, non esistono indagini affidabili e recenti che possano fornire un numero attendibile. Ciò che s’è saputo da un’interpellanza è che sarebbero circa 300 gli appartamenti inutilizzati nella proprietà delle banche, ma non si quanti di questi siano effettivamente pronti ad essere abitati. Il resto è ingoto. Se dal lato dell’offerta è buio pesto, qualcosa di più possiamo trarre dai dati demografici per comprendere l’andamento della domanda. Il numero di nuclei familiari, in tal senso, è un dato affidabile. Sul lungo periodo, poi, si evidenzia una dinamica sociologica che sarà sempre più significativa: la minore propensione dei giovani a “mettere su famiglia” e, altra faccia della medaglia, la diminuita stabilità affettiva delle coppie (crescita dei divorzi e separazioni). Questi fattori sono evidenziati da un dato: dal 2006 ad ottobre 2022 (ultimo dato disponibile), il numero di nuclei familiari (e dunque di unità abitative occupate) è cresciuto di 1911 unità, di cui il 50% sono nuclei composti da una sola persona. Perdono terreno quelli composti da tre o più persone. Questa dinamica, sul lungo periodo, determina una crescita del rapporto fra domanda di immobili (specialmente in affitto, visto che con un solo stipendio è ancor più difficile ottenere e pagare un mutuo) e aumento reale di popolazione rispetto a quello a cui siamo stati abituati nel corso del XX secolo: in breve, una società di “single” abbisogna di molte più case rispetto ad una società di coppie. Parte dell’opinione pubblica, e chi è bravo a cavalcarla, punta il dito sulle residenze atipiche: sono talvolta discutibili e, visto anche l’accordo con l’UE che aprirà ad alcune nuove residenze, sarà necessario rivederle e renderle decisamente più selettive, visti gli scarsi benefici di entrate finora forniti. Risulta che siano intorno al centinaio quelle concesse fino al 2021: poche per drogare un mercato. Inoltre, se i dati forniti sono attendibili, il grande balzo del valore dei canoni non s’è avuto successivamente all’istituzione di residenze atipiche, ma alcuni anni prima. Ciò detto, è indiscutibile che abbiano contribuito ad accrescere la domanda di case in affitto, ma è cronologicamente impossibile che siano state il fattore scatenante. Mi rendo conto, tuttavia, che sia più efficace fornire risposte semplici a problemi complessi. Per indole e formazione culturale, purtroppo, a me non riesce. Debbo pertanto giungere alla conclusione che, allo stato attuale, non si dispone di dati sufficienti a conoscere i motivi che hanno condotto all’attuale situazione; pertanto, è impossibile prescrivere cure specifiche al problema, se di esso si percepiscono solo i sintomi e non la causa. Ho tuttavia un’idea abbastanza chiara di un fatto: abitare una casa dignitosa è un diritto sociale imprescindibile. Se le condizioni di mercato ne ostacolano il godimento, lo Stato deve rimuovere quegli ostacoli. Nella fattispecie, è chiaro che bisogna intervenire significativamente sull’offerta: la revisione dei requisiti di chi è nelle case popolari associata ad una campagna di edilizia pubblica è necessaria per garantire quel diritto ai casi più complessi; bisogna imporre alle banche di mettere rapidamente sul mercato gli immobili sfitti, magari in collaborazione con lo Stato; è necessario fissare forme contrattuali che incentivino contratti ad equo canone parametrati al Reddito Medio Territoriale; forse sarà necessario spingere il mercato alla costruzione di nuove case, attraverso la riedificazione e l’ampliamento verticale degli immobili già esistenti, e qui si chiama in causa il P.R.G. Il primo passo, però, dovrà essere un’indagine analitica del patrimonio immobiliare esistente e del reale andamento della domanda di affitti: senza una conoscenza dei dati e un’analisi puntuale del problema, è impossibile tentare una previsione degli effetti reali di scelte legislative e politiche concreti, mettendoci così nelle mani della buona sorte.
cs Giovanni Maria Zonzini
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