Alberto Savi, l'ex poliziotto condannato all'ergastolo per gli omicidi della Uno bianca, ha chiesto e ottenuto per la prima volta dopo 23 anni di carcere un permesso premio: dodici ore di libertà, dalle 8 alle 20, di cui ha già beneficiato trovando ospitalità in una comunità protetta. Savi, 52 anni, è detenuto nel carcere di Padova. Contro il permesso premio si era schierata la Procura della Repubblica, presentando un ricorso al via libera dato a dicembre dal giudice di sorveglianza. Per ottenere le dodici ore di libertà, il più giovane dei fratelli Savi aveva presentato una serie di relazioni degli operatori del carcere Due Palazzi che attesterebbero un percorso di pentimento iniziato da tempo, accompagnato da un coinvolgimento lavorativo prima nel call center dell'istituto di pena per conto del Cup (Centro unico di prenotazione) dell'Azienda ospedaliera e dell'Uls 16 di Padova e successivamente in un'altra realtà. Sull'ok potrebbe aver pesato anche la lettera inviata nel settembre scorso all'arcivescovo di Bologna, mons. Matteo Zuppi, per chiedere perdono per quanto fatto. "I nostri morti non hanno permessi premio". Reagisce così Rosanna Zecchi, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime della banda della Uno bianca, alla notizia del permesso di cui ha usufruito Alberto Savi. "Da poco - prosegue Zecchi parlando con l'ANSA - siamo stati a due commemorazioni, di Beccari a Casalecchio e di Valenti a Zola Predosa, persone a cui la banda ha reciso la vita. Per noi questa gente non deve più avere voce in capitolo. Io non credo che si siano pentiti e mi auguro che dopo questo permesso la cosa finisca lì. E che i giudici non abbiano da pentirsi di averglielo dato", prosegue Zecchi. Nella concessione del permesso a Savi può aver contribuito la lettera all'arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi? "Non credo proprio che il vescovo - risponde Zecchi - abbia il potere di influenzare la giustizia".
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