Chi sarà il prossimo segretario generale delle Nazioni Unite? di Michele Chiaruzzi
Fuori dal circolo diplomatico pochi si pongono questa domanda e ancor meno riflettono sulle risposte possibili. Eppure l’oscuro processo politico volto alla nomina del successore di Bank Ki-moon è in pieno svolgimento. Rimbomba dunque, se lo si vuol sentire, il silenzio assordante attorno a questo passaggio cruciale. Si tratta della consueta indifferenza verso molti eventi della politica mondiale, un ambito tanto cruciale quanto trascurato della nostra introversa esistenza, rattrappita dai confini della politica locale. Sono sintomatiche la scarsità d’informazione e la carenza di pubblico confronto sulle vicende del “Parlamento dell’uomo”, destinato a sostenere la cooperazione laddove gli Stati non possono agire da soli con efficacia. Paul Kennedy affermava in quel libro: “È difficile immaginare quanto più spaccato e rovinoso sarebbe il nostro mondo di sei miliardi d’abitanti se non ci fossero le Nazioni Unite”. È invece facile notare quanto le Nazioni Unite siano investite dall’oblio riservato a qualsiasi progetto di sicurezza collettiva, a confronto della diffusa passione per qualsiasi diatriba o lutto – pur minore che sia.
Ora, a prescindere dai giudizi di valore, e comunque si giudichi il complicato operare delle Nazioni Unite, è arduo sostenere che la diffusa ignoranza della sua vicenda ne sia la cifra dell’irrilevanza attuale nelle relazioni internazionali. Ciò non spiegherebbe perché i membri permanenti del Consiglio di sicurezza si stiano severamente confrontando per influenzare e dirigere, con le proprie scelte, la nomina del segretario generale. È ciò che accade ormai da tempo, all’ombra del pubblico disinteresse inconsapevole. Si tratta peraltro di una nomina che offre motivi specifici di notevole interesse, oltre a quelli consueti. Le Nazioni Unite hanno infatti avviato un processo di selezione più chiaro e verificabile, chiedendo agli Stati, per la prima volta nella storia di nominare dei candidati, cosicché oggi alcuni di essi sono donne e altri hanno avanzato un’agenda programmatica. Queste sono novità rilevanti se si considera la storia dell’organizzazione, fondata su una pratica consuetudinaria che, per più di mezzo secolo, ha condotto alla scelta di segretari generali nella stanza riservata del Consiglio di sicurezza, infine sottoposti alla scontata ratifica dell’Assemblea generale.
Agli esigenti del mondo perfetto, intenti sulla soave bellezza dell’ideale, o a coloro i quali confondono l’ONU con il “governo mondiale”, travisando la sua natura, ciò potrà sembrar poco. Può darsi sia così, al prezzo di trascurare un dato di realtà: spesso, in politica, poco è meglio di niente. Oggi non esiste nemmeno la più piccola evidenza del fatto che gli Stati accetteranno mai di sottomettersi a un governo mondiale e alle procedure coerenti con tale struttura politica. Al contrario, perdurano le condizioni per le quali le relazioni internazionali sono condizionate dalla possibilità che i conflitti politici degenerino in guerra.
In effetti, il processo della nomina del segretario generale è oggi condizionato dalle divisioni generate dal riverbero delle guerre passate – Kosovo – e di quelle attuali – Siria, Libia e Ucraina. Esse contribuiscono a corrodere il consenso necessario a un esito condiviso su tale nomina, l’unica soluzione possibile. Si tratta di un processo affidato alla diplomazia più che alla legge. La Carta ONU indica succintamente, in un rigo dell’articolo 97, che il segretario è n ominato dall’Assemblea generale su proposta del Consiglio di sicurezza . Si sa che qualsiasi decisione del Consiglio di sicurezza deve includere tutti i membri permanenti e che tutti i membri permanenti possono impedire, anche legalmente, col proprio veto, qualsiasi decisione. Si sa altrettanto bene che ciascuna di queste potenze reclamò nel 1944 a Dumbarton Oaks questo potere. Da allora tutti contestano, di volta in volta, l’uso “irresponsabile” del veto, ma nessuno è stato in grado di rinunciarvi una volta per tutte. Al contrario, ciascuno lo rivendica costantemente usandolo a proprio fine. Pertanto, in un tempo intriso di retorica democratica, segnato dalla vulgata della globalizzazione, sembra lecito attendersi una diffusa considerazione critica ma realistica sulla democrazia rappresentativa in prospettiva mondiale, per quel tanto o poco che l’ONU rappresenta.
Sembra corretto sostenere, come fa Kennedy, che la cognizione di queste questioni debba essere patrimonio comune di chi possiede un’educazione. Così non è. Nel ventunesimo secolo questo impegno è calante, non crescente. Talché ci si potrebbe domandare se è più interessante il fatto che così tante persone si dedichino, ai margini delle loro attività, a considerare i problemi della politica mondiale, o che così poche persone facciano di questi problemi il loro interesse preminente. Sia come sia, resta una conclusione. La vita istituzionale della più ambiziosa delle organizzazioni mondiali è pressoché ignorata. Ciò riguarda più noi che l’ONU. Noi non siamo i popoli delle Nazioni Unite. Siamo quelli immortalati da Majakovskij nella chiusa di un monumentale componimento: “Noi siamo gente senz’ambizioni. Se non ci chiamano a nome non ci muoviamo. Piacciamo a nostra moglie, e di ciò ci sentiamo soddisfatti”.
tratto da "Istituto della Enciclopedia Italiana"