Morto John Ashbery, celebre poeta vincitore del Pulitzer
Ad annunciarne il decesso è il marito David Kermani.
Nato nel 1927 a Rochester, figlio di un agricoltore e di un'insegnante di biologia, dimostrò sin dall'infanzia una spiccata vivacità intellettuale. Da adolescente studiò presso la Deerfield Academy, dove il contatto con alcuni classici della poesia in lingua inglese fece sbocciare in lui una forte passione per la poesia. Si laureò magna cum laude alla Harvard University con una tesi sulla poetica di Wystan Hugh Auden e fu membro dell'Harvard Advocate, la rivista letteraria dell'università.
Dopo aver esordito nel 1953 con la raccolta poetica Turandot and other poems, riscosse un grande successo nel 1956 con “Some trees”, che venne premiata con lo Yale Younger Poets Prize.
L'opera che, tuttavia, lo fece conoscere e apprezzare a livello internazionale fu “Self-portrait in a convex mirror”, un'enigmatica riflessione sul rispecchiamento e sul tema della crisi della forma, il cui titolo trae spunto da un noto dipinto di Parmigiano, che è stata insignita, nel 1976, di tre tra i più prestigiosi riconoscimenti letterari statunistensi: il Pulitzer, il National Book Award e il National Book Critics Circle.
Etichettato come il capofila della cosiddetta New York School, la sua vena poetico-letteraria pressoché ininterrotta, che lo ha portato a pubblicare oltre venti raccolte di componimenti, delinea una vena poetica multiforme e polivalente, in cui a farla da padrone è una magmatica voglia di stravolgere ogni schema prefissato.
Attraverso una caleidoscopica ed ipertrofica sovrapposizione di differenti stili e linguaggi, che si può considerare come la trasposizione in poesia del logorroico cerebralismo dei romanzi di Thomas Pynchon, Ashbery effettua il titanico tentativo di far emergere la crisi che atrofizza gli attuali sistemi della comunicazione.
Il suo estro acrobatico, barcamenandosi sempre con sapienza infinita tra gli scenari onirici tipici del surrealismo francese e le bizzarrie patafisiche alla Raymond Roussel, tra la preziosità metaforico-allusiva di Wallace Stevens e le cadenze jazz caratteristiche della Beat Generation, tra l'oratoria ciceroniana e il canto popolare di Whitman, ha saputo proporre un'innovativa concezione poetica, in cui la lettura non è una semplice ricezione di informazioni, ma una sfida di decodifica, un gioco di interpretazioni che permette al lettore di appropriarsi in maniera più autentica di ciò che legge.
In altre parole, Ashbery ha compiuto in poesia quanto Pollock ha fatto in pittura: quella che si suol definire “opera aperta”, in cui non esiste un “centro” di significato, ma esistono solo differenti angolazioni di lettura. Oltre ai suoi meriti in ambito poetico, Ashbery era un apprezzato traduttore dal francese (lingua appresa tramite i numerosi soggiorni in Francia) ed un affermato critico d'arte che collaborava con vari musei, scrivendo saggi e organizzando mostre su alcuni dei pilastri dell'arte contemporanea, da Andy Wharol agli espressionisti astratti.