L’Oscar ha guardato l’orrore e ha premiato chi ha deciso di raccontarlo. In maniera lucida, cruda, forte. Negli ultimi anni l’Academy ci ha abituato a scelte “scomode”, che non rispecchiano più le attese Hollywoodiane. Sono i temi caldi dell’America contemporanea a vincere su sogno e glamour. Il luccichio degli abiti da sera, l’incanto della sfilata sul red carpet non perdono il loro fascino; la macchina oliata dello spettacolo offre bellezza e il miraggio di una vita magica, inavvicinabile. Ma accanto all’illusione di un mondo perfetto c’è la riflessione che nasce da storie di persone comuni, straordinarie nella loro quotidianità. Ecco che quindi vince il racconto, disincantato, dei marines impegnati nello sminamento in Iraq: urlo indipendente contro la guerra. C’è l’America del disagio sociale, nella Harlem degli anni ’80, il travolgente percorso di Precious, sedicenne obesa e semianalfabeta abusata sessualmente dal padre e psicologicamente dalla madre. C’è il documentario ambientalista sull’insostenibile massacro dei delfini in Giappone e il messaggio di speranza della cantautrice disabile Prudence Mabhena dal profondo Zimbabwe. E non sono più le dinamiche dei grossi budget a muovere le fila del premio più ambito del cinema. Sono gli incubi dell’America vera a vincere su tutti, come la guerra raccontata da una regista tosta che dirige come un uomo. Una coincidenza e un paradosso: la dura critica al conflitto di Kathryn Bigelow conquista la statuetta nel giorno della festa della donna e delle elezioni libere in Iraq.
Monica Fabbri
Monica Fabbri
Riproduzione riservata ©