Chicago. 20.000 persone. La folla esulta. Per un attimo sembra di essere tornati ad otto anni fa, quando Obama incarnava la speranza, una scommessa di pace, la promessa di cambiamento. Yes, we can: torna il fortunato slogan bandiera delle presidenziali, tornano l'entusiasmo, il carisma, il vigore. Anche il luogo è lo stesso: il palco del McCormick Place. Ma non siamo nel 2008, il discorso è il suo ultimo da presidente. La magia, quella di otto anni fa, è svanita. C'è un invito alla lotta, all'impegno civile, alla fiducia in una democrazia scossa e minacciata. Obama non nomina mai il neo presidente, ma Trump è lì, incombe come una minaccia tra le righe dell' addio, è l'obiettivo di avvertimenti indiretti, sul rispetto della Costituzione. "La nostra democrazia è minacciata quando la consideriamo garantita. Quando stiamo seduti a criticare chi è stato eletto, e non ci chiediamo che ruolo abbiamo avuto nel lasciarlo eleggere". Parla del mestiere di cittadino, invita il suo popolo a mettersi in gioco, a scendere in campo. Obama elenca i suoi successi ma fa anche autocritica. Ci sono problemi ancora irrisolti, disuguaglianze e discriminazioni razziali. E' questa la ferita più dolorosa, la fine dell'illusione che la sua vittoria fosse l'espressione di un'America tollerante. L'era post-razziale? Una chimera. "Non è mai stato realistico – dice - gli effetti dello schiavismo non sono svaniti negli anni Sessanta". Parla con passione, mette in guardia dalla destra, denuncia la manipolazione del razzismo da parte di chi aizza gli operai bianchi perché credano che le loro difficoltà economiche siano dovute alle minoranze etniche. Attacca l'islamofobia: "Respingo le discriminazioni contro i nostri connazionali musulmani, che amano l'America quanto voi". L'ombra di Trump è anche qui e assume contorni netti quando Obama avverte che “la scienza conta", alludendo al credo del neo presidente sul cambiamento climatico. Infine, le lacrime. Perché non c'è uscita di scena degna di essere ricordata senza commozione. E Obama si commuove. Lo fa quando ringrazia Michelle, non solo moglie ma “migliore amica”. “Sono fiero di te, l'America è fiera di te". Yes, we can. Dietro a quelle tre semplici parole, traduzione di “Si Se Puede”, lo slogan della lotta degli anni 70 condotta dal sindacato dei braccianti “latinos”, pochi lo sanno, ma c'era anche lei, Michelle. Un abbraccio e poi via, mano nella mano. Sullo sfondo la bandiera americana. Cala il sipario. “Non mi fermerò qui” - promette. “Sarò al vostro fianco, da cittadino".
Monica Fabbri
Monica Fabbri
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