1° OTTOBRE

"Il coraggio di rischiare la pace". Le sfide del futuro nell'orazione di Marco Impagliazzo

Il Presidente della comunità di Sant'Egidio parla dei sogni e dei progetti in comune con San Marino

Consonanza di valori che si riflette in progetti condivisi. La vicinanza tra San Marino e la comunità di Sant'Egidio, nella scelta di pace, libertà e accoglienza, rimane sullo sfondo della orazione – accorata e strutturata-di Marco Impagliazzo. Nella solennità dell'occasione il presidente della comunità di sant'Egidio richiama “al sistema dei Capitani Reggenti di San Marino” esempio di collegialità da valorizzare in tempi poco bendisposti verso sistemi di partecipazione democratica ed al coraggio di rischiare la pace.

Striglia l'Europa, che nelle risoluzioni sulla guerra in Ucraina rifiuta lo strumento diplomatico e la mediazione, quella centralità del rapporto umano che è prioritaria sul tavolo delle trattative. Negoziato come scuola di dialogo, spazio di crescita umana e culturale. Ricorda l'attenzione ai diritti umani, la lotta contro la pena di morte che ha visto la partecipazione di San Marino ai convegni internazionali per fare avanzare la moratoria delle esecuzioni capitali nel mondo.

Ricorda il filone di collaborazione più fecondo tra San Marino e la Sant'Egidio, quello che ha permesso -attraverso i corridoi umanitari -di fare raggiungere l'Europa a migliaia di richiedenti asilo legalmente e non attraverso i trafficanti di esseri umani. Parla di immigrazione come esigenza. Purché regolare. E si appella alla buona politica, perché per accogliere e regolarizzare occorre sforzo, pensiero e intelligenza organizzativa. Uscire dalla gabbia della paura- è l'invito finale. dalla paralisi spirituale, che ci rinchiude nell'orizzonte stretto dell'io.

Nel video Marco Impagliazzo, Presidente comunità di Sant'Egidio


Di seguito l'orazione integrale:

Eccellentissimi Capitani Reggenti,

Signori Segretari di Stato,

Onorevoli Membri del Consiglio Grande e Generale,

Distinti Membri del Corpo Diplomatico e Consolare,

Signore e Signori,

È un grande onore per me prendere la parola in occasione dell’insediamento dei nuovi Capitani Reggenti della Repubblica di San Marino. La Comunità di Sant’Egidio è strettamente legata, per molteplici ragioni, a questo paese così particolare e alle sue istituzioni. Lo è perché, se così posso dire, abbiamo messo in comune da diverso tempo alcuni nostri progetti e sogni. Ma lo è anche perché le radici alla base della vostra formazione statuale, che hanno forgiato e modellato la lunghissima storia della Repubblica sanmarinese, richiamano valori che lungo il Novecento hanno plasmato grandi tensioni unitive.

Quelle stesse che noi condividiamo e che, in un certo senso, hanno animato le nostre scelte fin dai primi passi: la pace, la libertà, l’accoglienza. Permettetemi però, all’inizio, di richiamare alla vostra attenzione la peculiarità del vostro sistema istituzionale, per il quale oggi siamo qui riuniti e che appare, in un tempo di crisi della democrazia, particolarmente significativo.

La democrazia nel mondo non gode di buona salute. Intanto perché arretra di fronte ai sistemi totalitari e alle cosiddette “democrature”. Il 2023 è stato, da questo punto di vista, un anno problematico: secondo l’indice di democrazia dell’Economist Intelligence Unit, pubblicato ogni anno, il punteggio medio globale è sceso al livello più basso dal 2006. Purtroppo, anche in regimi democratici assistiamo ad un’erosione dall’interno dei meccanismi della democrazia rappresentativa e della fiducia che essi ispirano.

Prova ne sia il diffuso rigetto della politica soprattutto da parte delle classi medie e basse, l’altissimo livello raggiunto dall’astensionismo nelle competizioni elettorali, la propensione sempre più forte per la verticalizzazione del potere (presidenzialismo, uomo forte e quant’altro).

Ha scritto Carlo Invernizzi-Accetti, della City University di New York: “Privati di canali di partecipazione, gli individui contemporanei si sentono soli e incapaci di influire sulle decisioni politiche che li riguardano. Da ciò deriva il loro senso di irrilevanza. (...) Oggi viviamo in una società composta da ‘sciami’ disorganizzati e autoreferenziali: agglomerati di individui intenti a confrontarsi reciprocamente, ma estranei a qualsiasi forma di azione collettiva”. Nel disinteresse per l’“altrui” si spengono, magari di morte lenta, le democrazie.

Il sistema dei Capitani Reggenti di San Marino va in controtendenza. Innanzitutto, è una forma di governo a tempo, cioè consente una forma di rotazione delle responsabilità e di conseguenza favorisce la partecipazione dei cittadini. Perché, come è noto, la libertà è partecipazione e senza partecipazione non c’è vera libertà. Poi, si tratta di un governo di condivisione. Non si governa da soli, ma insieme. Le decisioni vanno prese in comune.

A mio avviso è una grande lezione per chi ritiene che la complessità delle società di oggi richieda una drastica semplificazione delle leve di comando. Certo, è un modello che può svilupparsi in un territorio piccolo, difficilmente replicabile sic et simpliciter in Stati più estesi. Ciò non toglie che questo sistema, elaborato e perfezionato nel corso della lunga storia della Repubblica del Titano, rappresenti oggi un esempio di collegialità da valorizzare in tempi poco bendisposti verso sistemi di partecipazione democratica e di balance of power.

Papa Francesco più volte, in questi anni, ha esplicitato un pensiero che ci aiuta a comprendere la grande confusione generata da un mondo globale, di difficile lettura e pieno di stravolgimenti. Parlando alla Curia romana cinque anni fa disse: “Quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza”.

Non più cambiamenti lineari, ma vere e proprie fratture: “Cose che apparivano evidenti, almeno all’interno di una determinata cultura – scrive Olivier Roy – all’improvviso non lo sono più. (...) Ma se le cose non sono più scontate, se non vanno da sé, che ne è del bene e del male? Come si possono pensare i valori se vanno perdute le evidenze culturali”? Le attuali crisi, come quella climatica, la recente pandemia, i conflitti bellici, con il ritorno della guerra in Europa, hanno generato un diffuso senso di incertezza.

Oggi il futuro è scomparso dai nostri discorsi, perché avvolto di imprevedibilità. Non siamo più capaci di pensare il futuro anche a causa della frammentazione dei destini particolari, il senso di disorientamento e spaesamento provocato dalla globalizzazione, la mancanza di soggetti collettivi cui affidare le proprie sofferenze, ma anche le proprie speranze, hanno provocato l’emersione di una rabbia sociale per cui il risentimento ha preso il sopravvento, anche sulla politica.

Nel 2002, un’americana, Amy Chua, scrisse un libro significativo fin dal titolo, L'età dell'odio. C’era stato l’11 settembre con gli attentati terroristici contro gli Stati Uniti. Secondo l’autrice entravamo in un'età in cui avrebbe dominato l'odio. Sembrava esagerato invece è sempre più così: l'odio dei fanatici religiosi, l'odio etnico, l'odio del nemico. E l'odio si accompagna alla riabilitazione e alla giustificazione della guerra.

Vengo da Parigi, dove la settimana scorsa abbiamo promosso un incontro internazionale per la pace dal titolo, Imaginer la paix, con i rappresentanti delle grandi religioni mondiali, del mondo della politica, della cultura e della società civile, per cercare le strade di pace nella nebbia fitta di questo tempo di guerra. Bisogna avere il coraggio di rischiare la pace. A Parigi si sono espresse tante lingue e culture, capendosi e scoprendo che nella profondità c’è un’inquietudine di pace comune a tutti.

Anche se c’è la guerra è necessario pensare oggi la pace di domani: è un’opera di saggezza. La pace è la nostra vittoria: non una vittoria contro gli altri ma con gli altri, è stato detto. La Comunità di Sant’Egidio, si pone di fronte alla realtà dei nostri tempi come un “soggetto” sociale e storico, prendendo in prestito questa categoria da Gramsci: “La Comunità è un soggetto nella vita sociale, nella storia, nei quartieri, su alcuni scenari del mondo. – scrive Andrea Riccardi – Un ‘noi’ che però non è solo una somma di ‘io’, ma un noi in cui passa la vita. Un ‘soggetto’ che, con uno sguardo evangelico o attraverso i tanti occhi della sua gente, segue le vicende piccole e grandi del mondo. Guarda, vede e cerca di agire conseguentemente. Un ‘soggetto’ che si sente responsabile nel suo insieme, ma anche che suscita responsabilità tra la sua gente e tra chi lo ascolta”.

In questo suo percorso di inveramento del Vangelo nella realtà, attraverso l’educazione dei piccoli, l’aiuto personalizzato ai poveri e a chi vive nel bisogno, la promozione ed il lavoro per la pace, l’accoglienza verso i migranti e gli stranieri, per l’edificazione di una fraternità universale, ha trovato nella Repubblica di San Marino un alleato prezioso.

Dal 2011 vige un significativo Accordo di sede con il quale Sant’Egidio è riconosciuta dalla Repubblica come un’autorevole istituzione internazionale. Ma, al di là della formalità, contano le azioni e la pratica che ne sono scaturite: l’attenzione ai diritti umani, la lotta contro la pena di morte, che ha visto la ripetuta partecipazione di San Marino ai nostri congressi internazionali dei Ministri di Giustizia per far avanzare la moratoria delle esecuzioni capitali nel mondo. Tra l’altro, mi piace ricordare che San Marino, ancor prima del Granducato di Toscana, fu il primo Stato abolizionista della storia.

E ancora: l’aiuto finanziario rilevante al nostro programma DREAM che ha portato in molti paesi africani l’eccellenza delle cure per l’Aids e per altre malattie; la partecipazione al movimento internazionale di preghiera per la pace con i suoi incontri ecumenici e di dialogo interreligioso. E più recentemente con il sostegno ai corridoi umanitari (di cui parlerò più avanti). In poche parole, la Repubblica di San Marino e la Comunità di Sant’Egidio in modi diversi ma lavorando insieme dimostrano che in un mondo complesso e frammentato essere piccoli non vuol dire essere irrilevanti o condannati ad un orizzonte ristretto.

Grazie di cuore per la vostra stima e la vostra collaborazione. La pace è la più grande sfida per il futuro. C’è stato un momento nel quale tutti abbiamo sognato un mondo nuovo: la notte del 9 dicembre 1989 quando, senza spargimento di sangue fu buttato giù il muro di Berlino. Tutti sperammo finalmente in un mondo unito e universale. In effetti gli anni successivi non furono privi di eventi straordinari: il 4 ottobre 1992 si firmò, grazie alla mediazione di Sant’Egidio, la pace in Mozambico, dopo diciassette anni di guerra con un milione di morti e due milioni e mezzo di profughi.

I pesanti condizionamenti della guerra fredda e dello scontro bipolare nel continente africano si stavano sciogliendo. Terminò l’apartheid in Sudafrica. Nelson Mandela ne divenne presidente e, grazie anche all’ispirazione di un grande vescovo, il pastore Desmond Tutu, adottò uno straordinario modello di riconciliazione, basato sulla cancellazione di colpe e discordie in cambio della verità pubblica. Ci fu l’accordo di Oslo tra israeliani e palestinesi, purtroppo vanificato presto dal riemergere dei fondamentalismi.

Michail Gorbačëv parlava di casa comune europea, mentre Giovanni Paolo II sognava un’Europa unita dall’Atlantico agli Urali. Furono le guerre nella ex-Jugoslavia a far riemergere i fantasmi della “balcanizzazione”, una sorta di contro- globalizzazione: una corsa a ripiegarsi su sé stessi, sulla propria etnia, sulla propria nazione. Del resto, anche con la fine della guerra fredda – che comunque guerra era stata – ben presto ci si rese conto che la storia ancora una volta la scrivevano i vincitori ed era difficile resistere alla tentazione dell’umiliazione dei vinti.

L’esportazione della democrazia con le armi, le guerre preventive sono state il coté militare di un pensiero unico da espandere in tutto il pianeta, con scarso rispetto delle differenze e delle diversità di sensibilità. L’anti-occidentalismo, apparso anche con una certa ferocia negli ultimi anni e che ha spiazzato le cancellerie europee e statunitensi con l’emersione del cosiddetto Sud globale, non è altro che il prodotto finale di un’onda lunga cominciata con la risacca degli anni Novanta. Dopo il 1945, con la fine della seconda guerra mondale, dopo tanti lutti e rovine, dopo cinquanta milioni di morti, di cui ventisette milioni solo di russi, con l'eliminazione di circa i due terzi degli ebrei d'Europa, si fece strada una cultura della pace come cultura di massa e non più di singole personalità intellettuali. Il rifiuto della guerra fu istintivo e generale. Nasceva la costruzione europea, che tutti noi abbiamo conosciuto come una costruzione nonviolenta, fondata sul valore della pace, della solidarietà e del diritto.

Si dava vita all’Organizzazione delle Nazioni Unite e ad altre istituzioni internazionali, a cui la Repubblica di San Marino ha aderito convintamente; cito tra le altre, il Consiglio d’Europa, l’OSCE, e dal 1999 la Corte Penale Internazionale. La storia non doveva più essere circolare, imprevedibile, ma lineare, governabile. Precisamente la guerra rappresentava l’irrazionale e l’ingovernabile della storia. Il suo contrario veniva riconosciuto nel dialogo, nel negoziato, nella politica, nel diritto.

Scriveva don Primo Mazzolari all’indomani della guerra: “Non sono mai stati bene né i vinti né vincitori; anzi qualche volta sono stati più male i vincitori dei vinti, perché avevano anche da smaltire questa tremenda illusione: che la vittoria potesse dare il benessere. Non si costruisce il benessere sui morti, non si costruisce l’avvenire di qualsiasi popolo sull’odio ai fratelli”. Oggi, il ripudio della guerra e della violenza, e l’esercizio di una cultura della pace, sembrano venuti meno. Così come pare sbiadito, forse anche per il tramonto della generazione che lo ha vissuto, il ricordo tragico della Seconda guerra mondiale e della Shoah che ne rappresenta la massima ignominia e crudeltà. Non a caso, perché è durante le guerre che avvengono le peggiori nefandezze.

La strage degli armeni e degli altri cristiani nell’Impero ottomano, ad esempio, non poteva accadere che in un contesto bellico senza testimoni e osservatori esterni. Credevamo che Auschwitz avesse segnato in profondità l’Europa, insegnandole cosa essa dovesse essere, e producendo un nuovo umanesimo europeo. Ma oggi la cultura della guerra sembra riproporsi, come pensiero forte. Le opinioni pubbliche si concentrano su tematiche militari, sugli armamenti, non sulla pace possibile, non sulla qualità della vita, non sulla cooperazione allo sviluppo.

Il nazionalismo è di nuovo un valore, la retorica dell’eroismo bellico ricalca linguaggi di un secolo fa. L’industria degli armamenti è in crescita ovunque. Negli Stati Uniti sono state censite quattrocento milioni di armi, centoventi ogni cento abitanti; diciassette milioni di armi da fuoco vendute nel 2023, dieci milioni e quattrocento mila nel 2024. In generale, nelle risoluzioni sulla guerra in Ucraina, i parlamentari europei evitano di alludere a soluzioni negoziali e pacifiche. Qual è il senso del rifiuto dello strumento diplomatico? Sembrerebbe che gli eurodeputati abbiano scelto di rinunciare alla politica, affidando la pace non al dialogo e alla trattativa ma alle armi, il che in sostanza nega una pace che non sia la vittoria di una parte.

Non è questa l’Europa che nel 2012 ha vinto il premio Nobel per la Pace per il suo never again, cioè il proposito di mai più fare ricorso all’opzione militare dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale. Parole e iniziative di pace scarseggiano. Arduo trovare adesso un leader politico europeo che inviti alla mediazione o alla moderazione. Parlavo di cultura della guerra come pensiero forte. Anche la pace, prima di farla, ha bisogno di essere pensata. Pensata come possibile. E come desiderabile.

Perché, anche se la parola pace grida immediatezza e totalità, in realtà richiede pazienza, quella di un cesellatore. La parola pace non evoca il tutto e subito, bensì l’idea di un movimento, non sempre lineare, più spesso a singhiozzo, fatto di arresti e ripartenze. La pace mette in movimento. È un cammino, ha ricordato il cardinale Matteo Zuppi – che di pace se ne intende, avendo mediato con Andrea Riccardi quella in Mozambico – nella sua lettera aperta a chi manifesta per la pace, del 3 novembre 2022: “E, per giunta, cammino in salita. Occorre una rivoluzione di mentalità per capire che la pace non è un dato, ma una conquista. Non un bene di consumo, ma il prodotto di un impegno”.

“La pace è impura, profondamente, ontologicamente – ha detto il presidente Macron nell’incontro di preghiera per la pace due anni fa a Roma– perché accetta una serie di instabilità, di scomodità, che rendono però possibile questa coesistenza tra me e l’altro”. Nella nostra esperienza al tavolo delle trattative e nei percorsi di pace è prioritaria la centralità del rapporto umano: la comprensione delle ragioni e anche dei sentimenti di ciascuno dei protagonisti, la costruzione di un clima di fiducia o quantomeno meno ostile sono tappe importanti. La serietà di un processo negoziale deve far maturare nelle parti la volontà di accordo. Sono necessari tempo e pazienza. Si considera il rapporto umano importante in sé, non in rapporto ad obiettivi che si vogliono raggiungere.

Dietro ogni persona c’è un mondo, una sensibilità, una cultura, un modo di rappresentare la realtà. Il tempo dei negoziati non può essere accorciato ad arte, anche se ciò comporta il proseguimento del conflitto. Nello spazio del negoziato si aprono tante possibilità. Ogni guerra si nutre anche della demonizzazione dell’altro, di risentimenti o di torti reali o presunti accumulatisi in anni o decenni di odio. La trattativa è il momento in cui si sta insieme, ci si guarda negli occhi, in cui si aprono dinamiche che vanno verso il compromesso, la mediazione, l’accordo. Ciò porta alla trasformazione della concezione dell’altro.

Il negoziato è scuola di dialogo, spazio di crescita umana e culturale. È anche scuola di politica. E con il dialogo si riduce l’odio, ci si conosce di più e, al tempo stesso, ci si apre ad un futuro insieme: dunque è il tempo della costruzione di un’architettura istituzionale e politica, garanzia di libertà. La Repubblica di San Marino è terra di libertà. La sua indipendenza ha radici antichissime. Il suo fondatore, l’esule dalmata Marino all’inizio del IV secolo, prima di morire, secondo la leggenda, avrebbe detto ai suoi concittadini: “Relinquo vos liberos ab utroque homine”, cioè: “Vi lascio liberi dall’imperatore e dal papa”.

Quanto bisogno ci sarebbe oggi di libertà dalla paura. Spesso proprio la paura materializza ciò che si teme. Nella vita privata, la paura si esprime con la chiusura in se stessi. Nella vita pubblica, la paura ha un grande ruolo, strumentale al consenso. Ma le politiche della paura restringono il campo della libertà e aprono le porte all’autoritarismo. I sanmarinesi sanno bene che la libertà si coniuga sempre con l’apertura mentale, con l’accoglienza.

Quanti esuli, rifugiati politici, perseguitati, la Repubblica del Titano, sull’esempio del suo fondatore, cristiano in fuga dalla grande persecuzione di Diocleziano, ha accolto nel suo pur limitato territorio! E allora non è un caso se uno dei filoni di collaborazione più fecondi tra Sant’Egidio e la Repubblica sia quello dei corridoi umanitari, programma attraverso il quale migliaia di richiedenti asilo hanno potuto raggiungere l’Europa legalmente e non attraverso i trafficanti di esseri umani, il che significa violenza, sfruttamento, torture, prigionia e morte.

L’accoglienza generosa che avete dato a diverse famiglie ha permesso di avviare una cooperazione anche a livello legislativo, da noi molto apprezzata. Purtroppo, in questi ultimi anni, l’Europa ha iniziato a chiudere progressivamente le sue porte. Se fino a poco tempo fa si discuteva di redistribuzione solidale dei migranti e di come renderla efficace, oggi la parola d’ordine è esternalizzazione delle frontiere. Eppure, razionalmente, non dovrebbe essere difficile dimostrare come l’immigrazione sia benefica per la nostra civiltà, la nostra economia, la nostra demografia, il nostro welfare.

Autorevoli economisti, a cominciare dal Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, affermano che l’immigrazione è l’unico fattore oggi in grado di favorire lo sviluppo dell’economia. Come è ormai universalmente noto l’Italia invecchia e pertanto la sua popolazione si riduce. Nonostante i flussi di immigrazione degli ultimi anni, la fecondità è scesa a poco più di metà del cosiddetto tasso di rimpiazzo (2,1 figli per ogni donna). C’è un gran bisogno di immigrati.

Ma attenzione, di immigrati regolari: immigrati che lavorino e paghino tasse e contributi. Immigrati che conoscano o imparino rapidamente l’italiano, che possano sviluppare gradualmente ma costantemente un buon capitale umano. Come risulta ormai da molti studi, a emigrare non sono gli analfabeti poverissimi, ma coloro che hanno conoscenze e determinazione. La clandestinità, spesso provocata ad arte, è una sciagura per chi la vive e per chi ne subisce gli occasionali risvolti criminali: lungi dall’avere benefici economici è un peso per il territorio.

Ma per accogliere e regolarizzare è necessario sforzo, pensiero e intelligenza organizzativa; in una parola, buona politica. Recentemente il direttore generale della Banca d’Italia, Federico Signorini, ha detto: “Quanto più un fenomeno è arduo da arrestare, tanto più pare opportuno che un paese che sta affrontando un marcato declino demografico lo veda non come un problema, ma anche come una straordinaria occasione da cogliere”.

Difficile dire meglio. Pace, accoglienza, libertà. Specialmente libertà dalla paura. Matteo Zuppi in una recente intervista ha dichiarato: “Qualche volta mi sembra che stia vincendo la paura della vita, tanto che cerchiamo prima tutte le risposte e sicurezze per scegliere e pensiamo di avere sempre tempo. Mi sembra che abbiamo abolito il futuro anteriore, per cui non crediamo che quando avremo costruito troveremo quello che cercavamo. Così non c’è nemmeno il futuro e tutto diventa un ipotetico condizionale o, dobbiamo dirlo, ci riduciamo al presente”.

Occorre uscire dalla gabbia della paura, dalla paralisi spirituale che ci rinchiude nell’orizzonte stretto dell’io. Siamo fatti per guardare verso l’alto, per oltrepassare limiti e barriere, per sognare nuovi orizzonti. Lo sanno bene i cittadini di San Marino, che dall’alto del Monte Titano, attorno al quale hanno edificato i loro presidi di pace, libertà e accoglienza, continuano a perseguire i loro alti obiettivi, non arroccati sul presente, ma esposti con fiducia al futuro.

Grazie.

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