La Leggenda compie 50 anni. Quell’atleta dallo sguardo triste spicca il 2 gennaio 1960 l’ultimo volo verso l’infinito. Una malaria trascurata dai medici sulla quale poi si è molto favoleggiato se lo è portato via. Lascia molto di più di quel tanto che ha vinto: cinque Giri, due Tour, tre Sanremo, la Roubaix, la Freccia Vallone, il Mondiale su strada e 2 ad inseguimento su pista, il Record dell’ora. Fosse stato questo, di Coppi si parlerebbe come di un campione. Invece quell’omino curvo sul manubrio è molto molto di più. Duella con Bartali riportando il paese ai Guelfi e Ghibellini, lui cittadino laico additato come ateo perché non tiene immagini sacre sul manubrio come il rivale, lui accostato alla sinistra politica solo perché non sbandiera fede democristiana. Lui a rischio scomunica quando lascia la famiglia per un’altra donna, lui il primo a capire l’importanza della preparazione atletica e a voler affiancare la scienza al gesto tecnico, lui che vive con stupore l’improvvisa ricchezza e regala uno dei primi frigoriferi alla madre senza avere il coraggio di riprenderla quando nota che vi ripone legna da ardere. Lui che scambia la borraccia col nemico, lui che cambia anche il linguaggio di chi lo racconta. “Un uomo è solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”. Mario Ferretti apre così la radiocronaca della Cuneo Pinerolo, terzultima tappa del Giro del ’49. Lui talmente attento al fisico da non bere vino prima della corsa e per questo definito “Acquaiolo” dal guascone Bartali. Lui che se ne va per un po’ di antibiotici. Se ne va così, quando una pastiglia di Chinino lo avrebbe salvato. Ma come muore un campione? Oggi si direbbe di malasanità.
Roberto Chiesa
Roberto Chiesa
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