Per arrivare dall'albergo in cui Fabio e io siamo alloggiati al nuovissimo stadio delle bocce (da dove posto) ci vuole una mezz'oretta di macchina durante la quale si attraversa una Mersin che si attorciglia e un po' ti attanaglia in un dedalo di mulattiere e stradoni stile americano. Basta una rotonda, una svolta a destra, un semaforo per attraversare almeno 50 anni di storia di un paese molto turbolento, molto vivo, molto controllato, non troppo felice e molto orgoglioso. Mersin e' un cheeseburger a tre strati. In superficie ci sono le strutture sportive. Nuovissime e supertecnologiche, tirate su a tempo di record come ricordano i manifesti di un Premier che guarda torvo e dice: "We Promised, we did". È la grande sfida di chi a modo suo può raccontare di essere riuscito a tenere la protesta lontana dal colorato mondo dei Giochi. E di aver allestito in poco piu' di un anno un'edizione sicuramente degna. Il secondo strato riguarda il turismo, in lenta ma inesorabile espansione in una Marina di Mersin piena di luci e di vetrine, di griffe e yacht in darsena. Tutto rigorosamente recintato con tanto di guardie e guardiole. Perché fuori c'è il terzo strato. C'è la Mersin impolverata che può solo guardare, ma da lontano. E nemmeno sperare o sognare qualcosa di diverso. La Mersin che vive in quartieracci scrostati e curdi. Quella alla quale la politica non ha promesso nulla e nulla e' chiamata a mantenere.
Roberto Chiesa
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