E' morto Civolani, era l'ultimo genio di Bologna
Il Civ piegato ai supplementari da una lunga malattia
Scriveva per Lucio Dalla, andava al bar con Bulgarelli e baccagliava di Virtus con Alberto Bucci. Prima che un grande giornalista, Gianfranco Civolani era un pezzo di Bologna. Un'eccellenza. Talmente fiero di esserlo da non uscire più dalla sua città già da qualche anno perché diceva "Chi ha la fortuna di esser nato e aver vissuto qui, deve avere anche la fortuna di morirci e non vorrei che la vecchia mi sorprendesse altrove". E ai giovani colleghi sempre le tre regole auree: "Leggi molto, stai lontano dalla banalità, non chiamare mister un allenatore".
Il Civ ha segnato un'epoca nel linguaggio e nel modo di porsi e ha determinato sottoprodotti di emulatori in serie come forse nemmeno Gianni Brera. Inviato per Tuttosport prima e Stadio poi, volto televisivo, fino a vera e propria icona. Mai Direttore perché "a me piace fare il giornalista e non rovinare il lavoro degli altri", ripeteva a Italo Cucci, l'unico al quale riconosceva l'autorità e l'unico che tra una disperazione e l'altra ne ha saputo esaltare un talento clamoroso, ma fuori dagli schemi. Pigro, abitudinario eppure iperattivo e strepitoso.
Ha diretto il teatro La Ribalta portando per primo a Bologna La Vanoni e Jannacci, Paolo Poli e Proietti. E' stato responsabile della nazionale di baseball, vice presidente federale, presidentissimo della squadra femminile di basket "Tra le mie ragazzone, mi sento il nano più grande del mondo".
Ha collaborato con quotidiani, riviste, tv fino a quando la malattia glielo ha concesso. Lascia un patrimonio di oltre 20 libri che sono memoria storica di un'epoca più che di una città. Un anno fa l'ultima opera "Un giornalista da marciapiede" nel quale lascia un testamento ("sarei pronto per esser giovane, ma temo di esser fuori tempo") a chiunque proverà anche solo ad imitarlo, dimenandosi qualche anno luce più giù.