Un fallimento, né più né meno. L'Italia di Prandelli si rivela un flop clamoroso e sul banco degli imputati quasi non c'è posto, da quanto è affollato. Tutto ruota intorno alla spalla: Immobile è quella che l'oramai ex CT ha deciso di affiancare ad un impalpabile Balotelli, quasi spinto più dai giornalisti che da voler proprio a tale scelta tattica.
L'altra spalla è quella decisiva, di Godin. Che di gol pesanti se ne intende: al Camp Nou quello della Liga, a Lisbona quello che per 92 minuti ha concretizzato il sogno Champions. A Natal, infine, quello che fa fuori l'Italia.
La spalla numero tre è quella di Chiellini, quella che oltre ad un torto e un morso fornisce un appiglio che forse era meglio non ci fosse stato. Già, perché un'Italia incapace di arrivare agli ottavi per due volte consecutive non si vedeva dal 1966. E questa nazionale ha bisogno di tutto fuorché una scusa a cui aggrapparsi, uno o più episodi mistificatori di una realtà che fosse anche stata contro la Colombia non avrebbe potuto nascondere sotto un mucchietto di sabbia brasiliana i limiti di una formazione spompa, sulle gambe e incapace di calciare in porta. Il pareggio bastava, è vero. L'Uruguay non ha fatto paura finché il messicano Marco Rodriguez – tra rossi inventati e risparmiati – non ci ha messo del proprio. Vero anche questo.
L'Italia fin lì aveva tenuto a bada Suarez. Ecco, Suarez: la museruola oggi non è solo metafora di una marcatura stretta: è la vergogna in mondo visione. Azzurra e celeste, per motivi diversi e diversi comportamenti.
Intanto però, l'Uruguay di Tabarez va avanti. Il mondiale dell'Italia finisce invece qui. Come la legislatura Prandelli: dimissioni irrevocabili le sue, come quelle di Giancarlo Abete, nella conferenza stampa post partita. Il coraggio di prendersi e rispondere delle proprie responsabilità, almeno, non è mancato. Ma il futuro sembra tutt'altro che terso, tutt'altro che azzurro come quel cielo di Berlino che – senza un progetto tattico e di sviluppo del calcio nazionale – pare destinato a divenire mitologico e difficilmente raggiungibile.
Luca Pelliccioni
L'altra spalla è quella decisiva, di Godin. Che di gol pesanti se ne intende: al Camp Nou quello della Liga, a Lisbona quello che per 92 minuti ha concretizzato il sogno Champions. A Natal, infine, quello che fa fuori l'Italia.
La spalla numero tre è quella di Chiellini, quella che oltre ad un torto e un morso fornisce un appiglio che forse era meglio non ci fosse stato. Già, perché un'Italia incapace di arrivare agli ottavi per due volte consecutive non si vedeva dal 1966. E questa nazionale ha bisogno di tutto fuorché una scusa a cui aggrapparsi, uno o più episodi mistificatori di una realtà che fosse anche stata contro la Colombia non avrebbe potuto nascondere sotto un mucchietto di sabbia brasiliana i limiti di una formazione spompa, sulle gambe e incapace di calciare in porta. Il pareggio bastava, è vero. L'Uruguay non ha fatto paura finché il messicano Marco Rodriguez – tra rossi inventati e risparmiati – non ci ha messo del proprio. Vero anche questo.
L'Italia fin lì aveva tenuto a bada Suarez. Ecco, Suarez: la museruola oggi non è solo metafora di una marcatura stretta: è la vergogna in mondo visione. Azzurra e celeste, per motivi diversi e diversi comportamenti.
Intanto però, l'Uruguay di Tabarez va avanti. Il mondiale dell'Italia finisce invece qui. Come la legislatura Prandelli: dimissioni irrevocabili le sue, come quelle di Giancarlo Abete, nella conferenza stampa post partita. Il coraggio di prendersi e rispondere delle proprie responsabilità, almeno, non è mancato. Ma il futuro sembra tutt'altro che terso, tutt'altro che azzurro come quel cielo di Berlino che – senza un progetto tattico e di sviluppo del calcio nazionale – pare destinato a divenire mitologico e difficilmente raggiungibile.
Luca Pelliccioni
Riproduzione riservata ©