Si è votato nell’Europa dei 27, dall’Atlantico al Mediterraneo e fino ai confini dell’est ex sovietico. Alle urne in Libano. Consultazione elettorale anche nella Repubblica più antica, San Marino. Nelle situazioni non paragonabili sia per la specificità dei contesti sia per la stessa valenza del voto, emerge tuttavia un dato comune: vince sulla politica, la saggezza dei popoli.
A cominciare dalla partecipazione. Alle europee si è registrato il minimo storico in termini di affluenza (poco più del 43% di media degli aventi diritto) con punte ancora più basse nei paesi europei dell’est, in particolare per gli ultimi entrati (in Slovacchia non si è arrivati al 20%). Anche sul Titano, dove si rinnovavano le Giunte di Castello, ovvero le amministrazioni locali della Repubblica, la percentuale del voto è rimasta sotto i livelli minimi di 5 anni fa, mentre rispetto alla politiche dello scorso anno è scesa del 35%.
Scenario opposto in Libano: le urne hanno richiamato 55 libanesi su 100. Un record!
Si afferma, dunque, l’equazione: voto utile = voto numeroso.
Nel paese dei cedri, dopo la guerra dei 34 giorni nel 2006 e la transizione infinita degli ultimi due anni, con la prospettiva di un’affermazione di Hezbollah, il partito filo-iraniano di Nashrallah, i cittadini sono accorsi alle urne per premiare la linea moderata o se si vuole – come ha commentato Hariri, alla testa del partito che ha vinto – la democrazia. Un paese diviso in 19 etnie e in una pluralità di culti, cerca finalmente la stabilità e ha saputo dimostrare, maturo, di preoccuparsi anche dell’impatto esterno del suo voto. Ha scelto l’equilibrio mediorientale. Ha acceso un’ipoteca sul futuro. Niente è mai definitivo a quelle latitudini, ma è un buon inizio.
Quanto conta invece l’Europa per gli europei? Probabilmente molto, tuttavia la farraginosa burocrazia di Bruxelles e le strumentalizzazioni, che dai partiti nazionali scivolano nel parlamento europeo, non entusiasmano. La nuova Europa, nei suoi confini allargati, è giovane, piace ai giovani che hanno imparato ad attraversarne le frontiere, ma non piace ai più e non piace la sua politica. O se si vuole, la sua assenza di politica negli appuntamenti internazionali e sui grandi temi (sicurezza, lavoro, immigrazione, ambiente, diritti umani). La delusione si coglie nelle new entries ad est (Lituania, Slovenia, Romania, dove più di 70 cittadini su 100 non hanno votato) e si coglie nell’incremento degli euroscettici, in aumento nelle democrazie nordiche, quanto in quelle anglosassoni. D’altra parte, a livello nazionale, il tema Europa è stato appena sfiorato. Nei 27 paesi che hanno votato, tutto si è risolto in una prova di muscoli tra i partiti al governo e quelli all’opposizione. Un check sulla tenuta e sul gradimento di questo o quel leader, sulla sua capacità di addensare consensi o di sciuparli. I cittadini d’Europa, nella sostanza, sono stati tirati per la giacca tra il diritto e il dovere di esprimere la propria preferenza. Rivolta all’interno, tuttavia, con l’appeal europeo rimasto in secondo piano.
In Italia, non c’è stato il plebiscito a suo vantaggio, sbandierato da Berlusconi, anzi ha vinto la Lega e ha stravinto il partito di Di Pietro, che ha fondato la sua campagna sull’anti-berlusconismo, mentre a sinistra la divisione è rimasta perdente. La Spagna e la Francia hanno dato una precisa indicazione di centro-destra: no alle fughe in avanti di Zapatero, il gollismo di Sarkozy ha prevalso sul socialismo allo sfascio. Ma la novità vera è quella che si chiama come un ragazzo del ’68: Cohn Bendit. Ingrigito, anche un po’ ingrassato, il vecchio Daniel ha rappresentato il nuovo, anzi, di più, la coscienza ecologista più diffusa nel popolo che nella politica. Duro invece il giudizio sulla grosse-Koalition della Merkel, mai completamente digerita dai tedeschi. In alternativa sono stati premiati i liberali e la sinistra dell’ex ministro Oscar Lafontaine. Anche gli inglesi, a chiare lettere, hanno chiesto il rinnovamento della politica, benché venato di euroscetticismo e di xenofobia. Ha perso Brown -ed era previsto - ma con il tracollo del labour è finita un epoca: dopo il blairismo, si volta pagina.
Il vento di destra ha spazzato l’Austria, l’Olanda, l’Irlanda, l’Ungheria, ha soffiato forte in Polonia e anche in Finlandia.
Un vento che esprime il senso di diffidenza delle popolazioni, perfino la loro paura nei confronti delle politiche europee, ma soprattutto verso quelle dei propri governi, incapaci di attendere alle promesse o nel vuoto di alternanze. Anche questi sono segnali di cui l’Europa, che nel suo parlamento ospiterà solo cinque formazioni politiche ( le altre non hanno raggiunto il quorum) dovrà tener conto. Quanto alla più antica Repubblica, i sammarinesi, decisamente più scarsi alle urne, a loro volta hanno dimostrato saggezza: ha senso votare per le Giunte di Castello, se i poteri che toccano ai capitani sono appena di facciata? E i risultati hanno fornito tiepide conferme.
Probabilmente la politica, dai grandi scenari alle piccole realtà deve fermarsi a riflettere: non è “la gente”, i cittadini possono essere illusi, condizionati, e tuttavia pensano. Con il voto, uomini e donne cercano il futuro. Altrimenti, a casa o in piazza.
Carmen Lasorella
A cominciare dalla partecipazione. Alle europee si è registrato il minimo storico in termini di affluenza (poco più del 43% di media degli aventi diritto) con punte ancora più basse nei paesi europei dell’est, in particolare per gli ultimi entrati (in Slovacchia non si è arrivati al 20%). Anche sul Titano, dove si rinnovavano le Giunte di Castello, ovvero le amministrazioni locali della Repubblica, la percentuale del voto è rimasta sotto i livelli minimi di 5 anni fa, mentre rispetto alla politiche dello scorso anno è scesa del 35%.
Scenario opposto in Libano: le urne hanno richiamato 55 libanesi su 100. Un record!
Si afferma, dunque, l’equazione: voto utile = voto numeroso.
Nel paese dei cedri, dopo la guerra dei 34 giorni nel 2006 e la transizione infinita degli ultimi due anni, con la prospettiva di un’affermazione di Hezbollah, il partito filo-iraniano di Nashrallah, i cittadini sono accorsi alle urne per premiare la linea moderata o se si vuole – come ha commentato Hariri, alla testa del partito che ha vinto – la democrazia. Un paese diviso in 19 etnie e in una pluralità di culti, cerca finalmente la stabilità e ha saputo dimostrare, maturo, di preoccuparsi anche dell’impatto esterno del suo voto. Ha scelto l’equilibrio mediorientale. Ha acceso un’ipoteca sul futuro. Niente è mai definitivo a quelle latitudini, ma è un buon inizio.
Quanto conta invece l’Europa per gli europei? Probabilmente molto, tuttavia la farraginosa burocrazia di Bruxelles e le strumentalizzazioni, che dai partiti nazionali scivolano nel parlamento europeo, non entusiasmano. La nuova Europa, nei suoi confini allargati, è giovane, piace ai giovani che hanno imparato ad attraversarne le frontiere, ma non piace ai più e non piace la sua politica. O se si vuole, la sua assenza di politica negli appuntamenti internazionali e sui grandi temi (sicurezza, lavoro, immigrazione, ambiente, diritti umani). La delusione si coglie nelle new entries ad est (Lituania, Slovenia, Romania, dove più di 70 cittadini su 100 non hanno votato) e si coglie nell’incremento degli euroscettici, in aumento nelle democrazie nordiche, quanto in quelle anglosassoni. D’altra parte, a livello nazionale, il tema Europa è stato appena sfiorato. Nei 27 paesi che hanno votato, tutto si è risolto in una prova di muscoli tra i partiti al governo e quelli all’opposizione. Un check sulla tenuta e sul gradimento di questo o quel leader, sulla sua capacità di addensare consensi o di sciuparli. I cittadini d’Europa, nella sostanza, sono stati tirati per la giacca tra il diritto e il dovere di esprimere la propria preferenza. Rivolta all’interno, tuttavia, con l’appeal europeo rimasto in secondo piano.
In Italia, non c’è stato il plebiscito a suo vantaggio, sbandierato da Berlusconi, anzi ha vinto la Lega e ha stravinto il partito di Di Pietro, che ha fondato la sua campagna sull’anti-berlusconismo, mentre a sinistra la divisione è rimasta perdente. La Spagna e la Francia hanno dato una precisa indicazione di centro-destra: no alle fughe in avanti di Zapatero, il gollismo di Sarkozy ha prevalso sul socialismo allo sfascio. Ma la novità vera è quella che si chiama come un ragazzo del ’68: Cohn Bendit. Ingrigito, anche un po’ ingrassato, il vecchio Daniel ha rappresentato il nuovo, anzi, di più, la coscienza ecologista più diffusa nel popolo che nella politica. Duro invece il giudizio sulla grosse-Koalition della Merkel, mai completamente digerita dai tedeschi. In alternativa sono stati premiati i liberali e la sinistra dell’ex ministro Oscar Lafontaine. Anche gli inglesi, a chiare lettere, hanno chiesto il rinnovamento della politica, benché venato di euroscetticismo e di xenofobia. Ha perso Brown -ed era previsto - ma con il tracollo del labour è finita un epoca: dopo il blairismo, si volta pagina.
Il vento di destra ha spazzato l’Austria, l’Olanda, l’Irlanda, l’Ungheria, ha soffiato forte in Polonia e anche in Finlandia.
Un vento che esprime il senso di diffidenza delle popolazioni, perfino la loro paura nei confronti delle politiche europee, ma soprattutto verso quelle dei propri governi, incapaci di attendere alle promesse o nel vuoto di alternanze. Anche questi sono segnali di cui l’Europa, che nel suo parlamento ospiterà solo cinque formazioni politiche ( le altre non hanno raggiunto il quorum) dovrà tener conto. Quanto alla più antica Repubblica, i sammarinesi, decisamente più scarsi alle urne, a loro volta hanno dimostrato saggezza: ha senso votare per le Giunte di Castello, se i poteri che toccano ai capitani sono appena di facciata? E i risultati hanno fornito tiepide conferme.
Probabilmente la politica, dai grandi scenari alle piccole realtà deve fermarsi a riflettere: non è “la gente”, i cittadini possono essere illusi, condizionati, e tuttavia pensano. Con il voto, uomini e donne cercano il futuro. Altrimenti, a casa o in piazza.
Carmen Lasorella
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