“Quel pomeriggio eravamo tranquilli. Non ci aspettavamo una cosa simile, onestamente. Non avevamo idea che potesse esserci un attentato”. Questo il ricordo di Giuseppe Costanza, autista di Giovanni Falcone. Alla guida della fiat croma blindata – quel pomeriggio di 25 anni fa – doveva esserci lui, ma il magistrato aveva voglia di guidare e si mise al volante. Costanza, invece, si accomodò sul sedile posteriore e scampò miracolosamente alla strage. Erano le 17.58 quando Giovanni Brusca premette il pulsante, e il cemento dell'A29 inghiottì l'auto di Falcone e quella della scorta. 572 chili di tritolo per annientare – una volta per tutte – l'uomo che aveva osato scatenare contro la Mafia una lotta senza quartiere. Condanna a morte firmata da Totò Riina e dagli altri padrini della Commissione Provinciale di Cosa nostra. Tra loro anche Matteo Messina Denaro, l'ultimo dei boss ancora a piede libero. Nell'esplosione – oltre al magistrato e alla moglie Francesca Morvillo – morirono anche gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Poche settimane dopo il martirio di Falcone, un altro eroe italiano doveva pagare, per la sua guerra irriducibile alla Mafia. “Sono un condannato a morte”: l'aveva ripetuto più volte, Paolo Borsellino, prima che una 127 carica di esplosivo – parcheggiata sotto casa della madre - facesse scempio di lui e di 5 agenti della sua scorta.
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