Un minuto di silenzio alle 8.15 del mattino, nel momento in cui la bomba fu sganciata, 63 anni fa, da 600 metri d’altezza. Poi un volo di colombe. L’intera città ha reso omaggio alle vittime. Oltre 242mila i morti secondo la stima ufficiale: gente polverizzata, bruciata viva o deceduta in seguito all’esposizione al fall-out atomico. Tre giorni dopo, in quel 1945, la seconda bomba a Nagasaky. Il giorno prima l’Unione Sovietica rompeva il patto di non belligeranza con il Giappone e lo pugnalava alle spalle invadendo la Manciuria. Nessuna Norimberga, ovviamente, per chi decise gli attacchi atomici sulla popolazione civile. Ma nessuno fu mai chiamato sul banco degli imputati neppure per l’orrore dei bombardamenti incendiari su Dresda e Tokyo. A finire impiccati furono i vertici militari giapponesi. “E’ servito per accorciare la Guerra – hanno detto - senza l’atomica sarebbero morte più persone”. Una giustificazione quantomeno paradossale. Parte della storiografia contemporanea dice invece che la decisione di sganciare la bomba fu presa nell’ottica di ammonire l’Unione Sovietica e limitarne l’espansione a Oriente. Il Giappone non rappresentava più una minaccia, era una nazione prostrata. Si era già, insomma, al confronto tra due blocchi. Una scelta di geopolitica sulla pelle di oltre 200mila civili.
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