Ha destato scalpore la lettera di scuse inviata ieri da Erdogan, a Putin, per la spinosa vicenda del Sukhoi; un gesto che sembrerebbe dare il via ad un disgelo dei rapporti, dopo il muro contro muro seguito all'intervento russo nel conflitto siriano. A colpire è stata soprattutto la tempistica: 7 mesi dopo l'abbattimento del velivolo russo. E' allora inevitabile collegare il passo indietro, dell'uomo forte di Ankara, nei confronti del Cremlino, con la contestuale ripresa delle relazioni diplomatiche tra Turchia ed Israele, che – dopo il noto incidente della Mavi Marmara - potrebbero tornare a collaborare sul piano militare e dell'intelligence. Tra gli analisti c'è chi dice che la mossa di Erdogan sia stata caldeggiata dallo stesso Netanyahu: da tempo in buoni rapporti con Putin, e deluso dall'incerta politica estera americana nell'Area. C'è poi in ballo la partita strategica dei gasdotti: perché proprio dalla Turchia dovrebbe passare il South Stream russo e la pipeline del giacimento Leviathan: scoperto al largo delle coste israeliane. Una cosa appare chiara: questa triangolazione Ankara, Mosca, Tel Aviv, produrrà inevitabilmente effetti sul conflitto in Siria ed Iraq: per sapere quali, occorrerà attendere i prossimi mesi. Ci si domanda poi come reagiranno, a tutto ciò, i curdi ed il fronte sciita, che vede nella Russia un alleato strategico. Nel frattempo nello Yemen – precipitato nel caos, dopo il disastroso intervento della coalizione guidata dai Saudita e sostenuta da Washington, contro i ribelli Houti – continua a scorrere il sangue. Almeno 43 persone sono morte, ieri, in una serie di attacchi compiuti dall'Isis nella città portuale meridionale di Al Mukalla: fino a poco tempo fa roccaforte di Al Qaida, ed ora nelle mani delle truppe leali al Governo in esilio.
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