Certo, a guardare i cartelli delle stazioni di servizio, viene il buon umore; specie a San Marino, dove fare il pieno, spesso, è molto conveniente. Ed effettivamente il crollo del prezzo del greggio, può essere una buona notizia per Paesi, come l'Italia, che dipendono quasi interamente – per l'approvvigionamento energetico - dalle importazioni. Bollette meno care, allora; ma anche lo spettro della deflazione, che torna a spaventare l'Europa e rischia di vanificare il Quantitative Easing di Draghi. Il piccolo rimbalzo del Brent – di poco oltre i 30 dollari al barile, oggi – significa poco: secondo l'AIE il prezzo del petrolio – nel 2016 – scenderà ancora, dopo essere crollato del 75% in 18 mesi. A causare ciò, innanzitutto, il calo della domanda, a causa della crisi economica in corso dal 2008. E poi l'azzardo strategico dell'Arabia Saudita che ha aumentato la produzione per guadagnare quote di mercato. Il primo Paese ad andare gambe all'aria è stato il Venezuela. Nel mirino anche lo shale oil: che – al netto dei danni all'ambiente - ha permesso agli Stati Uniti di raggiungere l'indipendenza energetica, ma che – per essere economicamente sostenibile – richiederebbe prezzi intorno ai 70 dollari al barile. L'obiettivo di Ryad è poi mettere al tappeto la Russia - che dovrà ricalcolare il proprio bilancio – e l'arcinemico Iran, che si affaccia nuovamente sui mercati occidentali, dopo l'accordo sul nucleare. Il vantaggio geopolitico – per i Sauditi - di una destabilizzazione dell'asse Mosca-Teheran è evidente, ma i rischi sono alti. La casse della casa regnante hanno accusato il colpo, e la situazione economica è ulteriormente aggravata dai costi esorbitanti dell'intervento armato nello Yemen, che peraltro sta provocando un numero elevatissimo di vittime civili. Negli anni scorsi, la dinastia saudita, era solita assicurarsi il consenso elargendo denaro a pioggia ai propri sudditi. Tutto ciò, ora, non è più possibile
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