“La Turchia ha preso una decisione storica, che tutti devono rispettare, compresi i nostri alleati”. Così – rivolgendosi innanzitutto alla Nato e all'UE – ha esordito Erdogan, nel suo primo discorso dopo la vittoria referendaria, che gli assegna pieni poteri. Il “si” al presidenzialismo sarebbe passato con poco più del 51% delle preferenze, restituendo l'immagine di un Paese spaccato e con le grandi città che per la prima volta – dopo 15 anni – voltano le spalle al Rais. E questo nonostante il suo AKP avesse occupato il 90% degli spazi televisivi in campagna elettorale, utilizzando il pretesto dello stato d’emergenza per ridurre al minimo i comizi dei partiti schierati per il “no” alla riforma presidenziale. Secondo alcuni analisti l'esito di questo referendum trascina la Turchia verso un modello più vicino alle autocrazie orientali che all’Europa. Una sfida, quella di Erdogan, al Vecchio Continente, proseguita con la promessa di discutere con gli altri leader politici la reintroduzione della pena di morte in Turchia, che potrebbe essere oggetto di un nuovo referendum. I risultati definitivi della tornata appena conclusa saranno resi noti non prima di 10 giorni. L'opposizione – dal canto suo – denuncia brogli sul 3-4% dei voti. Spalleggiata, in questo senso, dall'OSCE, secondo la quale il voto “non è stato all'altezza” degli standard internazionali e si è svolto in un contesto legale “inadeguato a un processo genuinamente democratico”. Sbagliata in particolare, per gli osservatori internazionali, la scelta della commissione elettorale di ammettere le schede non timbrate. Tutto ciò, probabilmente, non avrà alcun effetto su Erdogan, che dopo il fallito golpe del luglio scorso non si è fatto scrupoli nel reprimere qualsiasi forma di dissenso, e ora aspira a rimanere in sella fino al 2034. Inquietante che tutto ciò avvenga in un Paese membro della NATO, e dove sono presenti numerose armi atomiche americane. Stati Uniti che – dal canto loro – si trovano al momento a gestire un altro dossier, molto pericoloso: quello nordcoreano. Oggi la visita a Seul del vicepresidente americano, che si è recato anche nella zona di confine demilitarizzata tra le coree. “L'era della pazienza strategica con Pyongyang – ha dichiarato Mike Pence - è finita; gli Stati Uniti utilizzeranno qualsiasi mezzo necessario per proteggere la Corea del Sud”. Il ministro degli Esteri russo, però, invita alla calma. Lavrov si è augurato che gli Stati Uniti non intraprendano azioni unilaterali, come invece è accaduto recentemente in Siria. Pechino, infine, esorta tutte le parti coinvolte a dare prova di moderazione astenendosi da provocazioni.
Riproduzione riservata ©