Uno dei motivi principali dell'inammissibilità del quesito referendario è legato ai concetti di “rispetto del diritto di voto e del principio rappresentativo”. Lo spiegano i saggi nella sentenza in cui si fa riferimento alla Dichiarazione dei diritti, nello specifico al passaggio in cui si stabilisce che i consiglieri siano eletti “a suffragio universale e diretto per la durata della legislatura”.
La proposta di cambiamento prevedeva che, in caso di mancato raggiungimento dei voti necessari al primo turno, la Reggenza concedesse alla lista o coalizione con la maggioranza relativa il mandato di formare una maggioranza tramite accordo con altre formazioni. In caso negativo, il mandato sarebbe stato affidato al secondo arrivato. Entrambe le ipotesi, se di successo, avrebbero concesso un numero minimo di 35 seggi. Se nessuno dei tentativi fosse andato a buon fine, allora si sarebbe andati al ballottaggio con 32 seggi minimi al vincitore.
E' proprio il meccanismo ipotizzato nella proposta ad essere, per così dire, contestato nella sentenza perché, in questo caso, sarebbero le forze politiche, tramite “accordo, a determinare il completamento della composizione” del Consiglio. I saggi la definiscono una “sorta di cooptazione”. Ci sarebbero stati, quindi, alcuni membri diretta conseguenza del voto popolare e altri individuati con la combinazione di voto e accordi politici.
I saggi ricordano che, in un sistema di suffragio “diretto”, è l'elettore a concorrere direttamente nella determinazione della rappresentanza parlamentare. Dopo la sentenza, i promotori non escludono la presentazione di un altro quesito, riadattandolo. Va avanti invece l'iter per i referendum che chiedono di sancire la gestione pubblica delle reti tramite Aass e di vietare la conversione del credito d'imposta in debito pubblico, entrambi ritenuti ammissibili.
Mauro Torresi
La proposta di cambiamento prevedeva che, in caso di mancato raggiungimento dei voti necessari al primo turno, la Reggenza concedesse alla lista o coalizione con la maggioranza relativa il mandato di formare una maggioranza tramite accordo con altre formazioni. In caso negativo, il mandato sarebbe stato affidato al secondo arrivato. Entrambe le ipotesi, se di successo, avrebbero concesso un numero minimo di 35 seggi. Se nessuno dei tentativi fosse andato a buon fine, allora si sarebbe andati al ballottaggio con 32 seggi minimi al vincitore.
E' proprio il meccanismo ipotizzato nella proposta ad essere, per così dire, contestato nella sentenza perché, in questo caso, sarebbero le forze politiche, tramite “accordo, a determinare il completamento della composizione” del Consiglio. I saggi la definiscono una “sorta di cooptazione”. Ci sarebbero stati, quindi, alcuni membri diretta conseguenza del voto popolare e altri individuati con la combinazione di voto e accordi politici.
I saggi ricordano che, in un sistema di suffragio “diretto”, è l'elettore a concorrere direttamente nella determinazione della rappresentanza parlamentare. Dopo la sentenza, i promotori non escludono la presentazione di un altro quesito, riadattandolo. Va avanti invece l'iter per i referendum che chiedono di sancire la gestione pubblica delle reti tramite Aass e di vietare la conversione del credito d'imposta in debito pubblico, entrambi ritenuti ammissibili.
Mauro Torresi
Riproduzione riservata ©