"La missione di combattimento in Iraq è finita". E’ la frase che milioni di americani aspettavano da tempo. Barak Obama ha rivendicato con orgoglio di aver mantenuto la promessa fatta in Campagna elettorale. Ma non ha parlato di vittoria, che va guadagnata – ha dichiarato – “attraverso il successo dei nostri partners e la forza della nostra Nazione”. “Gli Stati Uniti – ha detto – hanno pagato un prezzo immenso”. Ma è tempo di guardare oltre, di voltare pagina. Ora la responsabilità per la sicurezza del Paese passa nelle mani del popolo iracheno. Qualcuno la definisce la nuova alba, per Obama è "una pietra miliare", "un momento storico". L’America, ora, ha altro a cui pensare. C’è da rilanciare l’economia, ridare un nuovo impiego a milioni di cittadini che hanno perso il lavoro. Da oggi potrà essere investito altrove il denaro finora speso nel conflitto. Ma cosa rimane dell’Iraq, dopo sette anni di guerra? Un paese senza un governo, martoriato, diviso dall’odio, sconvolto da attentati, a rischio guerra civile e su cui si allunga l'ombra dell'influenza iraniana. Sette anni di guerra hanno bagnato la sabbia del deserto del sangue di 5000 soldati, di 70.000 iracheni fra uomini, donne e bambini. Sette anni di guerra e nessuna traccia di armi di distruzione di massa. La nuova alba è ancora lontana, questo è certo. E c’è un’altra guerra in corso che Obama ha voluto ricordare, quella in Afghanistan, dove 22 morti negli ultimi 5 giorni segnano il bilancio peggiore dall'inizio del conflitto. Il presidente è preoccupato e i sondaggi giustificano la sua apprensione. Ha confermato che il ritiro comincerà dal luglio 2011, ma tutto dipenderà dalle condizioni sul terreno. Oggi una guerra simbolicamente finisce, ma un’altra è ancora lontana dal dirsi conclusa.
Monica Fabbri
Monica Fabbri
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