Palermo, 19 luglio 1992: un’autobomba con 90 chili di tritolo esplode in via D'Amelio. Quella domenica d'estate muoiono il giudice Paolo Borsellino e cinque membri della sua scorta. Nel cuore degli italiani tornano orrore, rabbia e paura. Solo cinquantasette giorni prima la mafia aveva ucciso Giovanni Falcone. A trent'anni di distanza, un'infinità di processi, decine di sentenze, appelli, pronunce della Cassazione, tante domande cercano risposta: sulle responsabilità esterne a Cosa nostra, sui depistaggi, le indagini, sugli uomini in giacca e cravatta sul luogo della strage e sulla famosa agenda rossa che qualcuno ha ribattezzato la scatola nera della Repubblica.
Si dice che, dopo la morte dell'amico Falcone, Borsellino avesse iniziato ad annotarvi incontri, interrogatori, e chissà cos'altro. Che fine ha fatto? Ormai non se lo chiede più solo la vedova, la prima a notarne l'assenza una volta aperta la valigetta 24 ore del marito, riconsegnatole dopo mesi dalla mattanza.
C'è una ferita nel cuore dell'Italia che non si rimargina. Troppi misteri. Per i familiari delle vittime non c'è pace, solo amarezza e delusione. Oggi le commemorazioni. Si ricorda l'attentato, che porta con sé anche il carico emotivo di una quotidianità spezzata senza pietà: Borsellino non era solo un giudice antimafia, ma anche un padre, un marito, un figlio. Quel giorno stava andando da sua madre, in via d’Amelio. La mafia lo sapeva. Il fratello minore, Salvatore Borsellino, invoca il silenzio di passerelle e politici. “Fatta carta straccia – accusa – del lavoro di Paolo e Giovanni”. Oggi si piange la perdita di un uomo perbene, un servitore dello Stato. Che non doveva parlare neanche da morto. E che resta senza giustizia, né verità. Nel servizio, accanto ai contributi video, gli scatti del fotografo sammarinese Marco Pollini