Quando ho deciso di impegnarmi con UDS nella battaglia per la depenalizzazione dell’aborto a San Marino, ho pensato sin da subito che i gruppi antiabortisti ci avrebbero attaccato duramente. Nella mia beata ingenuità, però, mi aspettavo che ci avrebbero criticato soprattutto per la prima parte del quesito, in cui si prevede la possibilità di interrompere la gravidanza entro la dodicesima settimana. Ben prima che partisse ufficialmente la campagna elettorale, invece, ci siamo ritrovati di fronte a una serie di attacchi contro quello che viene definito “aborto terapeutico”, un tema delicatissimo che richiederebbe la massima attenzione e sensibilità e dovrebbe essere trattato in punta di piedi. Non ho figli e non sono mai rimasta incinta, ma sin da quando ero ragazza la questione dell’aborto terapeutico mi ha sempre toccata e spinta a profonde riflessioni. Sono cresciuta nel mondo della disabilità perché mio fratello maggiore era nato con un handicap gravissimo per “mancanza di assistenza al momento del parto”. Sarebbe comunque stato un bimbo, un ragazzo e poi un uomo felice, se una serie infinita di patologie, favorite dalla sua disabilità, non avessero devastato la sua esistenza: vi furono anni, lunghissimi anni, duranti i quali non smise mai, se non per sfinimento, di urlare disperatamente per il dolore 24 ore su 24. Senza potersi far capire, senza che tutto il nostro amore bastasse ad aiutarlo. Anche se nel caso di mio fratello si era trattato di un “incidente” impossibile da prevedere, come donna che avrebbe voluto diventare madre ho sempre guardato con grande speranza ai progressi della scienza che permettono oggi tante importantissime diagnosi prenatale. Davo per scontato che per tutti, se ci si sofferma un attimo a pensare, l’idea di una donna, del suo compagno e dei loro familiari che si trovino di fronte a una diagnosi infausta sia quanto di peggio si possa immaginare. Non ho mai esitato a comprendere e a sentirmi vicina a chi, nonostante una diagnosi avversa, decide di portare avanti la gravidanza e accetta quello che il destino gli riserva. Per qualsiasi motivo una donna faccia la scelta di tenere un figlio malato, io la capisco. E un paese civile deve mettere in funzione tutti gli strumenti possibili e immaginabili per sostenerla psicologicamente, fisicamente, materialmente prima e, soprattutto, dopo il parto. Tanto è stato fatto negli ultimi decenni per migliorare una società che di certo inclusiva non era, e sappiamo tutti bene quanto ancora ci sia da fare. Nella rinata UDS uno dei primi gruppi di lavoro che abbiamo attivato si occupa, ad esempio, di sessualità delle persone con disabilità, proprio perché crediamo fermamente nell’importanza della vita e di una vita il più possibile completa, appagante e felice per tutti. Crediamo però altrettanto fermamente che una donna che si trovi infine a fare una scelta diversa, perché ogni caso è a sé stante e perché le possibili patologie sono infinite, dovrebbe essere altrettanto aiutata, compresa, sostenuta. Di certo non abbandonata, colpevolizzata, criminalizzata, come invece accade a tutt’oggi nel nostro paese. Troppo spesso la nostra società è portata a giudicare una donna per il suo presunto egoismo, quando non vuole portare a termine una gravidanza, convinta che sia perché non vuole prendersi cura di un figlio, tanto più se particolarmente bisognoso. Una donna che affronta un aborto, invece, che sia nei primi tre mesi o tanto più in caso di diagnosi infausta, prende su di sé una scelta dolorosa, per non creare altro dolore. In tutto il mondo la scienza lavora alacremente per affinare sempre di più le diagnosi prenatale: crediamo veramente che siano tutti dei nazisti votati all’eugenetica? O forse si vuol solo lottare per una vita migliore? Se prendiamo la carta tematica del mondo con la raffigurazione dei singoli Stati in base al loro livello di democrazia e la sovrapponiamo a quella dedicata alla legalizzazione dell’aborto, vediamo che quasi ovunque, dove c’è democrazia, l’interruzione volontaria della gravidanza è legale e sicura: dove c’è autoritarismo o dittatura, l’aborto è perseguito. Siamo noi la “anomalia”. Mai più ragazze abbandonate a se stesse, mai più donne precarie costrette a recarsi al lavoro il giorno dopo un aborto perché qui devono nascondersi, mai più famiglie colpite da diagnosi infauste cacciate e criminalizzate. Il 26 settembre votiamo SÌ.
Valentina Rossi, membro del Comitato promotore del Referendum per la depenalizzazione dell’IVG a San Marino