A quasi 7 anni dal referendum del 2013 fortemente sostenuto dal PSD e molti partiti, movimenti, parti sociali ed economiche in cui i cittadini alla richiesta di avviare l’adesione negoziata con l’Unione Europea si espressero con più sì che no, senza però raggiungere il quorum, è bene, credo, proporre una riflessione. Il suddetto tema in questi giorni si impone di nuovo perché nel momento in cui si ricercano finanziamenti internazionali per uscire dalla crisi economica determinata dalla pandemia, è evidente l’effetto dello status di paese extracomunitario: senza dubbio dopo l’Italia, sono le istituzioni europee quelle a cui si pensa per chiedere un aiuto, avere assistenza, presentare le ipotesi di ripresa su cui basare la garanzia del finanziamento; purtroppo l’unico accordo in vigore, quello di cooperazione ed unione doganale è sterile da questo punto di vista, non consente accesso alla Commissione, né alla Banca Centrale Europea. Altresì il quesito si impone perché sia San Marino che l’Unione Europea sono ad un tornante della storia. San Marino dopo la crisi finanziaria globale del 2008 a seguito della quale ha ripudiato i pilastri che lo avvicinavano ad un paradiso fiscale, non ha però prodotto un modello di sviluppo alternativo chiaro e riconosciuto e si ritrova in una situazione economico finanziaria che prima del virus era critica e ora esige cure a base di debito pubblico inedite. L’UE è chiamata a decidere se continuare un processo di disgregazione o se definitamente scegliere di creare una Unione più forte, non solo economica e non solo dominata dalle esigenze contrastanti degli stati membri. La svolta sta nell’impressionante ammontare di euro messi a disposizione dall’UE che rappresenta un vincolo che da ora in avanti non potrà essere ignorato e che suggerirà a tutti di trovarsi sulla stessa barca e che è bene rafforzarla e remare nella stessa direzione. In questa legislatura bisogna dare una svolta al rapporto con l’UE. L’eredità del referendum del 2013 è stato l’avvio, datato 2015, del negoziato per l’Accordo di Associazione. 5 anni sono passati e urge riconoscere un fatto: il percorso del suddetto accordo non sta dando i frutti sperati. I compagni di viaggio Andorra e Monaco hanno esigenze diverse, quest’ultimo soprattutto, è ormai chiaro, sia soddisfatto dallo status quo. È tempo di prendere quello che potrebbe essere l’ultimo treno, quello dei paesi balcanici occidentali che sono candidati o stanno negoziando già con l’UE l’adesione. Non è più tempo di tergiversare. Ora sono ben visibili i limiti dell’isolamento: dal caso targhe all’asfissia del nostro sistema bancario, dall’inaccessibilità di Banca Centrale Europea alla perdurante carenza di una immagine chiara nel contesto continentale. Anche il rapporto con l’Italia avrebbe segnato un sicuro avanzamento perché senza dubbio l’assistenza e la vicinanza del grande paese sarebbe stata inevitabile in un processo di maggiore integrazione con l’UE. È il tempo di dare una connotazione chiara a qualsiasi progetto di ripresa economica e di collocazione internazionale, vediamo ora con la crisi COVID19 quanto sia costoso navigare a vista e non avere rapporti istituzionali stretti con le organizzazioni multilaterali più prossime. È dovere farlo coinvolgendo parti sociali ed economiche oltre alla politica, deve essere un processo in cui la cittadinanza sia sempre coinvolta ed aggiornata. Una consulta per l’Europa. La risposta all’interrogativo iniziale per me è chiara: una negoziazione diretta con l’Unione Europea non è più una possibilità, è una necessità.
c.s. Gerardo Giovagnoli - Segretario PSD