Quello che sta accadendo non ci lascia certo tranquilli: la pandemia non solo ci fa temere per la nostra salute (e non valgono né le considerazioni catastrofistiche smentite dai cosiddetti negazionisti, né le rassicuranti parole di chi dice che il virus è già stato sconfitto), ma temiamo per le conseguenze per tutta la nostra vita, sia personale sia di relazione. Ho avuto in questi giorni l’occasione di leggere alcuni testi che raccontano, in maniera avvincente, la storia di una presenza cristiana nel mondo, presenza capace di ridare speranza agli uomini. Quella speranza che solo Gesù Cristo sa fare rinascere nei cuori assetati di vita e di verità. E, oltre al racconto affascinante di come una presenza seria di cristiani sa aggregare i giovani in maniera entusiasmante e vivace, al netto delle solite interpretazioni e incomprensioni dei benpensanti, di media asserviti alla ideologia al potere, mi ha interrogato questa affermazione di colui che, dopo l’esperienza delle prigioni nelle carceri comuniste della Cecoslovacchia, ne è diventato, quando è iniziata una epoca di libertà col crollo del Muro di Berlino, Presidente della Repubblica. Dice Vaclav Havel, riportato dal bel libro «La P38 e la mela»: «Naturalmente ogni società deve essere organizzata in qualche modo. Se la sua organizzazione deve essere al servizio dell’uomo e non viceversa, bisogna innanzitutto difendere l’uomo e così offrirgli lo spazio per organizzarsi liberamente; quanto sia assurdo il procedimento opposto, in cui gli uomini vengono organizzati così o cosà (da qualcuno che sa sempre benissimo di che cosa “ha bisogno l’uomo”) affinché possano, stando a quanto si dice, essere liberi, lo abbiamo sperimentato fin troppo bene sulla nostra pelle». Che fare in questo tempo in cui non sappiamo neppure se il lockdown rimetterà i confini tra gli uomini, se la malattia porterà nuovi strascichi di morti in solitudine, se le chiese e le scuole diventeranno i nuovi luoghi abbandonati da chi cerca verità, conforto, educazione e amicizia? Dove trovare le risorse che sostengano il cammino e la speranza degli uomini del nostro tempo? Ci siamo incontrati con il Vescovo e con i responsabili della pastorale diocesana e non ci siamo nascosti le gravi difficoltà di questo tempo, e la responsabilità che ci compete, come persone appassionate del bene comune e della felicità di coloro che incontriamo nel nostro cammino. Ci ha sostenuto la consapevolezza della necessità di camminare insieme, riflettendo sui passi comuni da fare per trovare soluzioni adeguate nella concreta urgenza storica. Ad un certo momento ci ha interrogato la domanda: «E se si dovessero chiudere tutti gli spazi di rapporto in conseguenza dell’aggravarsi della pandemia? Che cosa ci resterebbe da fare? E allora che cosa abbiamo imparato da quanto accaduto?» Penso che siano domande a cui ognuno di noi deve cercare di dare risposta, ora che la precarietà della vita si è fatta sentire con maggiore forza e il benessere raggiunto sembra essere minacciato e precario. Penso che il lavoro iniziato in Diocesi porterà frutti positivi, solo però se ciascuno di noi vivrà con consapevolezza e responsabilità quello che il proprio posto nella società gli chiederà. Per parte mia penso che quanto affermato da Havel sia la strada da percorrere: «bisogna innanzitutto difendere l’uomo e così offrirgli lo spazio per organizzarsi liberamente». Non possiamo illuderci che esistano soluzioni imposte dall’alto che risolvano i nostri problemi. Se, come spesso affermato, siamo in presenza di un cambiamento d’epoca, allora è necessario fare i conti con l’attrezzatura possibile per affrontare quello che accade. Personalmente credo che quanto una volta lessi di Pasternak sia ancora la via più giusta: «Torniamo al nostro discorso. Dicevo che bisogna essere fedeli a Cristo. Mi spiego meglio. Voi non capite che si può essere atei, si può non sapere se Dio esista e per che cosa, e nello stesso tempo sapere che l’uomo non vive nella natura, ma nella storia, e che, nella concezione che oggi se ne ha, essa è stata fondata da Cristo, e che il Vangelo ne è fondamento. Ma che cos’è la storia? È un dar principio a lavori secolari per riuscire a poco a poco a risolvere il mistero della morte e a vincerla un giorno. Per questo si scoprono l’infinito matematico e le onde elettromagnetiche, per questo si scrivono sinfonie, ma non si può progredire in tale direzione senza una certa spinta. Per scoperte del genere occorre una attrezzatura spirituale, e in questo senso, i dati sono già tutti nel Vangelo». Ebbene sì: se la storia che ci ha generato è la strada per risolvere il dramma della vita, guai a noi se la buttiamo via come un relitto del passato. Abbiamo celebrato in questi giorni la festa del nostro fondatore San Marino e, in una preghiera, abbiamo chiesto di essere fedeli alla nostra storia, non legandoci a quelle nazioni che, rifiutando la concezione cristiana dell’uomo e conculcando la fede, producono solo frutti di morte e di schiavitù. Ma non possiamo restare soli, e neppure ripetere discorsi. È il tempo fecondo della azione e del rischio di tutti noi, che abbiamo la fierezza di vivere nella «Antica terra della libertà».
Don Gabriele Mangiarotti