È un vero e proprio SOS quello lanciato, sulle pagine del CorSera, da un'operatrice sanitaria del Centro di Diagnosi del tumore al seno ad Herat, in Afghanistan, aperto e sostenuto dal 2011 dalla Fondazione Veronesi. Ormai la città è semivuota perché gran parte dei 600mila abitanti è partita. I talebani si fanno infatti sempre più vicini – con avanzate a meno di una decina di chilometri - e il Centro è stato chiuso un paio di giorni fa, dopo aver visitato circa 9.300 donne.
“Se rimaniamo qua, ci uccideranno”, racconta F.R., 40 anni, al giornalista Lorenzo Cremonesi, descrivendo l'accerchiamento sempre più stretto e minaccioso. Riferendosi alle otto donne che dal 2013 lavoravano nel Centro, dichiara senza mezzi termini: “Siamo in pericolo di vita”. Parla di una costante dei talebani: “Uccidono subito gli afghani che hanno collaborato con il governo e soprattutto con le organizzazioni occidentali”. F.R. sottolinea poi che “noi siamo donne, dottoresse e infermiere”, persone molto note, in pratica bersagli mobili. Donne che, nelle aree controllate dai talebani, non possono lavorare, così come le bambine non possono andare a scuola oltre le elementari. Nessuna, in pratica, può uscire di casa se non accompagnata da un uomo.
“Dobbiamo espatriare il prima possibile con le nostre famiglie”, ribadisce. Chiede aiuto a “chiunque possa ascoltarci”, ma soprattutto all'Italia perché sino a due mesi fa qui stava il contingente italiano. Ora però non ci sono più vie d'uscita: “L'aeroporto è chiuso e i talebani hanno il controllo dei due varchi di frontiera con Iran e Turkmenistan, siamo in trappola”.