Aveva 83 anni e da tempo non era più il suo calcio. Troppa cultura generale e troppi pochi schemi per resistere e divertirsi in quello che tutto ora pensano sia un lavoro serio. Vujadin Boskov preferiva sorridere. Tre cose in difesa e tre in attacco e guai limitare la fantasia degli interpreti. Ha vinto dappertutto perchè dappertutto ha allenato prima gli uomini e poi i calciatori. Gli è successo in patria da dove è partito presto perché la sua ironia non trovava salubri incastri col regime di Tito. Partito per l'Olanda, la Spagna, l'Italia. Due finali di Coppa Campioni con Real Madrid e Sampdoria e a Bogliasco Vujadin aveva trovato clima e uomini in grado di capirlo e di farsi esaltare da quel tecnico così saggio e così umano. Si definiva maestro, amico e poliziotto per i suoi giocatori e sui moduli la chiudeva molto presto: “C'è chi sa giocare e chi no”. Scudetto, 2 Coppe Italia, una Coppa delle Coppe e una Supercoppa. Dunque non uno normale. Uno diverso. Che domani a Novi Sad riunirà un'altra volta tutti quelli che gli devono tanto e gli hanno voluto bene. Che futuro poteva avere al tempo dell'azione vivisezionata al microscopio di 30 telecamere uno per il quale rigore è quando arbitro fischia? Oppure il suo testamento sportivo. Calciatori vincono, allenatori perdono. Da quel giorno chissà perché non ha più allenato. Semplici coincidenze, oppure la prova che il mondo di Boskov era ai titoli di coda.
Roberto Chiesa
Roberto Chiesa
Riproduzione riservata ©