Dodici anni dopo la sanguinosa repressione in Ungheria, i carri armati sovietici entrano nella capitale cecoslovacca e mettono fine alla Primavera di Praga. Era la notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968. La notizia ebbe eco in tutto il mondo. Il partito cecoslovacco non aveva espresso la volontà di rompere l’unità del Patto di Varsavia. L’invasione fu quindi accolta con sorpresa dalla popolazione. Restano negli occhi le immagini della popolazione che circonda i carrarmati sovietici e tenta di dialogare con i soldati che lo guidano.
La Cecoslovacchia era un paese avanzato economicamente e culturalmente, la classe operaia veniva da una tradizione comunista e socialdemocratica: le condizioni ideali per l’avvio di un processo di rinnovamento democratico delle società socialiste. Il Socialismo dal volto umano di Alexander Dubcek prevedeva il riconoscimento delle libertà politiche, culturali e sindacali, la separazione fra partito e governo, la parità fra le diverse componenti etniche del paese.
La Primavera cecoslovacca poteva contare sull’appoggio del più forte Partito Comunista d’occidente, quello italiano, come espresso chiaramente da Pietro Ingrao nel suo intervento alla Camera dei deputati nella seduta del 29 agosto del 1968: “Non solo non abbiamo taciuto, ma abbiamo agito e cercato di pesare; e di fronte all’intervento militare dei cinque paesi del patto di Varsavia abbiamo espresso il nostro grave dissenso e la nostra riprovazione”.
Seguì un periodo di “normalizzazione”. A Dubcek subentrò Gustav Husak che in breve tempo annullò tutte le riforme del suo predecessore. Il partito comunista organizzò un ferreo controllo sulla società. Non mancarono però casi di protesta: su tutti il suicidio del giovane studente Jan Palach che il 19 gennaio 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao, al centro di Praga, ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Morì dopo tre giorni di agonia e al suo funerale presero parte più di seicentomila persone provenienti da tutto il paese.
La Cecoslovacchia era un paese avanzato economicamente e culturalmente, la classe operaia veniva da una tradizione comunista e socialdemocratica: le condizioni ideali per l’avvio di un processo di rinnovamento democratico delle società socialiste. Il Socialismo dal volto umano di Alexander Dubcek prevedeva il riconoscimento delle libertà politiche, culturali e sindacali, la separazione fra partito e governo, la parità fra le diverse componenti etniche del paese.
La Primavera cecoslovacca poteva contare sull’appoggio del più forte Partito Comunista d’occidente, quello italiano, come espresso chiaramente da Pietro Ingrao nel suo intervento alla Camera dei deputati nella seduta del 29 agosto del 1968: “Non solo non abbiamo taciuto, ma abbiamo agito e cercato di pesare; e di fronte all’intervento militare dei cinque paesi del patto di Varsavia abbiamo espresso il nostro grave dissenso e la nostra riprovazione”.
Seguì un periodo di “normalizzazione”. A Dubcek subentrò Gustav Husak che in breve tempo annullò tutte le riforme del suo predecessore. Il partito comunista organizzò un ferreo controllo sulla società. Non mancarono però casi di protesta: su tutti il suicidio del giovane studente Jan Palach che il 19 gennaio 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao, al centro di Praga, ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Morì dopo tre giorni di agonia e al suo funerale presero parte più di seicentomila persone provenienti da tutto il paese.
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