Rischiano la pena di morte i quattro imputati indiani condannati oggi per lo stupro shock di New Delhi dello scorso dicembre nel quale morì una studentessa di 23 anni, ribattezzata con il soprannome di 'Nirbhaya' (Colei che non ha paura). Dopo sette mesi di lavori e 130 udienze, la mano della giustizia indiana è calata pesantemente sui quattro imputati del 'branco', riconosciuti colpevoli da un tribunale speciale della violenza di gruppo. Si è trattato di un tragico episodio che ha sconvolto la società indiana e internazionale, rimuovendo il velo di ipocrisia esistente sulla condizione della donna in India e spingendo la classe politica locale ad agire per inasprire le pene per i colpevoli ed allo stesso tempo adottare misure in favore della emancipazione femminile. La corte, che farà conoscere domani il dispositivo della sentenza, ha confermato basandosi sulle dichiarazioni della giovane morente e sulle prove raccolte dalla polizia i 13 reati ascritti agli imputati, per i quali la pena prevista varia fra l'ergastolo e la condanna a morte. Quest'ultima richiesta nell'arringa finale dal pubblico ministero è reclamata a gran voce dai familiari e dal fidanzato della vittima. "Non avrò pace fino a quando non saranno cancellati dalla faccia della terra, come loro hanno fatto con mia figlia", ha detto con la voce increspata dall'emozione il padre di 'Nirbhaya', Badrinath Singh. Alle 12.40, il giudice Yogesh Khanna ha pronunciato la sentenza in presenza degli imputati e dei genitori della vittima. ''Tutti gli accusati sono colpevoli'', ha detto, aggiungendo che ''sono stati riconosciuti responsabili di stupro di gruppo, crimini contro natura, distruzione di prove e per aver commesso l'omicidio di una persona indifesa''. All'esterno del tribunale nel quartiere di Saket della capitale, un gruppo di manifestanti, alcuni incappucciati di nero ed altri con una fascia nera a chiudere la bocca, hanno esultato per la condanna e scandito slogan favorevoli alla pena capitale per gli imputati. Da parte sua uno degli avvocati difensori, A.P. Singh, ha sostenuto che ''il processo non e' stato equo''. ''Questo avrebbe dovuto essere un chiaro caso di proscioglimento - ha detto ai giornalisti - ma poiché e' stata esercitata una fortissima pressione politica, i quattro sono stati condannati''. Gli accusati, ha concluso, ''sono povera gente, e per questo sono stati riconosciuti colpevoli''. Il 31 agosto un altro tribunale ha condannato un quinto imputato, minorenne all'epoca dei fatti, a tre anni di riformatorio, pena massima prevista dal Codice penale in India per chi non ha raggiunto la maggiore eta', in una sentenza non priva di polemiche. Infine Ram Singh, sesto membro del gruppo e considerato il capo del 'branco', si e' apparentemente suicidato in carcere.
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