Al crac del colosso finanziario statunitense, consumato tra il 12 e 14 settembre, faceva seguito quello di altre 107 banche americane, 92 solo nel 2009, a dimostrazione che anche se il peggio della crisi finanziaria è ormai alle spalle, molte difficoltà restano. Con il crollo della quarta banca d’affari americana, il mondo finanziario sembrava finito. La responsabilità maggiore è sulle spalle del ministro del Tesoro di George Bush, Henry Paulson. Fu sua la decisione di lasciar fallire Lehman Brothers. Era sicuro che il sistema avrebbe retto e che fosse fondamentale dare un segnale forte a Wall Street per mettere un freno alle speculazioni. I fatti hanno dimostrato che sbagliò i conti. Il sistema bancario sammarinese risultò privo di titoli tossici. Banca Centrale reagì positivamente, instaurando procedere che aveva lo scopo di evitare il rischio futuro di situazioni simili. Gli istituti di credito prestarono molta attenzione ai titoli e soprattutto verificarono i propri numeri e i propri crediti. Ma la crisi della finanza divenne subito una crisi di sistema. Le fabbriche chiusero. Milioni i disoccupati e dall’Asia all’Europa nessuno venne risparmiato. Cominciarono i vertici internazionali globali, in cui trovarono posto anche Cina, India e Brasile. Un anno dopo, la crisi innescata dal week end nero di Wall Street ha visto il ritorno del primato della politica con un decisivo intervento dei governi per sostenere la domanda. Ora le Borse hanno recuperato, si vedono segnali di stabilizzazione ma la perdita di posti di lavoro continua. In un anno non è cambiato solo il nostro modo di consumare, ma anche quello di immaginare il futuro. Bisogna sperare in nuove regole, in un ritorno della fiducia e in sagge politiche di investimenti. Ma nulla è certo. La sintesi migliore è nella foto di copertina del settimanale americano Time della scorsa settimana: incrociamo le dita.
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