La legge di bilancio è proseguita nel solco della politica della tristezza, del rigore punitivo e dell’assenza di idee. Tagliere e privatizzare sono gli unici verbi a cui il governo è ricorso: tagli sulle retribuzioni, tagli alla sanità, al fondo pensione e privatizzazione delle poste. Dulcis in fundo uno sfacciato condono fiscale e la cancellazione dell’articolo 26 della legge di bilancio dello scorso anno (mai applicato) per la trasparenza dei reali proprietari delle banche.
L’unico momento d’ilarità lo si è avuto quando il pacco regalo da 3 milioni e 300 mila euro all’indirizzo del signor Ambrogio Rossini è scoppiato in faccia all’imprenditore amico della politica. Certamente s’è trattato di un moto di decenza del Consiglio, anche se una versione meno nobile vorrebbe che a votare contro siano stati alcuni rappresentanti di una fazione affaristica opposta. Se fosse vero, l’opera di bonifica della politica dovrà essere molto profonda.
Una nota particolare riguarda i due principali segretari di stato, esteri e finanze. Il primo per la latitanza e la superficialità: mentre la black list soffoca il Paese, Valentini discorre della crisi della famiglia e si bea per gli accordi con l’Honduras e l’ingresso nel SEPA, dove meno di così non era davvero possibile fare (basta chiedere al direttore di filiale della propria banca per averne prova). Il pio segretario non è riuscito a mettere da parte il suo pudore atlantista e religioso neppure di fronte ad uno degli uomini più potenti della terra, il ministro degli esteri cinese Wang Yi. E così la grande opportunità è diventata una gaffe diplomatica. È il momento che Pasquale Valentini decida: se fare il chierichetto o il segretario; se servire lo Stato o le consorterie religiose.
Felici intanto fa sempre più suoi i panni del tecnocrate. È un ruolo che gli permette di fare mostra di tutta la sua poderosa intelligenza. Peccato solo che abbia deciso di metterla al servizio della più scontata dottrina fondomonetarista, cadendo nel cliché del comunista pentito in cerca di espiazione.
Il governo per nascondere la misera della sua politica ricorre spessissimo ad un’analisi falsata della crisi. Ci dice: “La festa si è spinta un po’ troppo in là. Siamo costretti a riportarla nei limiti. A costo di inimicarci la popolazione dobbiamo intervenire per fare ciò che va fatto”. Le obiezioni principali sono due. La prima: non è accettabile che gli stessi che la festa l’hanno voluta e organizzata ora pretendano di essere loro a dire agli altri come sistemare, pulire e riordinare. La seconda è che il modo più certo per fare fallimento è rispondere alla crisi con l’automatismo dell’unica ideologia sopravvissuta al post-ideologismo (e per questo invisibile agli occhi dei più): il liberal liberismo. Una delle battute più famose del segretario Felici è che “lo sviluppo non si può fare per decreto”. Cioè, lo Stato deve rimanere fuori dall’economia. Si sbaglia. L’Europa è diventata un continente libero e ricco proprio per il ruolo centrale che gli Stati hanno avuto nell’economia: si chiama keynesismo o socialdemocrazia.
I progetti in cui impegnarsi non mancano: dalla costruzione di un campus universitario a quella di un ospedale all’avanguardia, dai nuovi modelli di stato sociale alle energie verdi, dal riconoscimento delle professioni creative (art director, programmatori, designer, illustratori, artigiani dell’arte, eccetera) alla ricerca tecnologica, dalla demolizione degli orrendi fabbricati della speculazione immobiliare al ripristino del diritto non a una casa qualunque, ma a una casa che abbia dignità architettonica e che stia dentro ad un disegno urbanistico.
Una parentesi di cronaca: un segno piccolissimo ma importante di quel che San Marino potrebbe essere scegliendo la strada del lavoro, della cooperazione e della socialità, io l’ho trovato alla bellissima (perché autentica) manifestazione “A borgo”. Un grazie agli organizzatori.
Qualcuno dirà: non ci sono i soldi. Non è vero. I soldi ci sono, ma finiscono in sperperi o ruberie. E quand’anche non ci fossero uno Stato minimamente coscienzioso avrebbe l’obbligo di indebitarsi così come farebbe qualsiasi genitore per garantire il sostentamento dei propri figli.
Ma c’è da fare una puntualizzazione. Ci sono due tipi di debito. C’è il debito che serve per ripagare altri debiti, che è il debito a cui sta ricorrendo il governo e che ormai ha raggiunto la pericolosa cifra di 400 milioni di euro. E poi c’è il debito che nel tempo si ripaga da solo e che concorre alla produzione della ricchezza. È il debito di cui ha bisogno San Marino.
Come uscirne? Con la politica, ovviamente. C’è un racconto di Giorgio Caproni nel quale il protagonista, un prete, nel finale ha un’intuizione: “non so più agire e prego; prego non so ben dire chi e per cosa; ma prego: prego non, come accomoda dire al mondo, perché Dio esiste: ma, come uso soffrire io, perché Dio esista”. Pregare in politica non serve e niente. Eppure il senso della missione politica è tutto qui. La politica va fatta proprio quando un futuro non lo si vede o non c’è. È un atto contro la rinuncia e la paura. San Marino ce la fa solo se torna la politica. Come direbbe un mio amico (e come diceva anche il mio povero babbo): dai San Marino, cà’glià fem!
Luca Lazzari / Sinistra Unita
L’unico momento d’ilarità lo si è avuto quando il pacco regalo da 3 milioni e 300 mila euro all’indirizzo del signor Ambrogio Rossini è scoppiato in faccia all’imprenditore amico della politica. Certamente s’è trattato di un moto di decenza del Consiglio, anche se una versione meno nobile vorrebbe che a votare contro siano stati alcuni rappresentanti di una fazione affaristica opposta. Se fosse vero, l’opera di bonifica della politica dovrà essere molto profonda.
Una nota particolare riguarda i due principali segretari di stato, esteri e finanze. Il primo per la latitanza e la superficialità: mentre la black list soffoca il Paese, Valentini discorre della crisi della famiglia e si bea per gli accordi con l’Honduras e l’ingresso nel SEPA, dove meno di così non era davvero possibile fare (basta chiedere al direttore di filiale della propria banca per averne prova). Il pio segretario non è riuscito a mettere da parte il suo pudore atlantista e religioso neppure di fronte ad uno degli uomini più potenti della terra, il ministro degli esteri cinese Wang Yi. E così la grande opportunità è diventata una gaffe diplomatica. È il momento che Pasquale Valentini decida: se fare il chierichetto o il segretario; se servire lo Stato o le consorterie religiose.
Felici intanto fa sempre più suoi i panni del tecnocrate. È un ruolo che gli permette di fare mostra di tutta la sua poderosa intelligenza. Peccato solo che abbia deciso di metterla al servizio della più scontata dottrina fondomonetarista, cadendo nel cliché del comunista pentito in cerca di espiazione.
Il governo per nascondere la misera della sua politica ricorre spessissimo ad un’analisi falsata della crisi. Ci dice: “La festa si è spinta un po’ troppo in là. Siamo costretti a riportarla nei limiti. A costo di inimicarci la popolazione dobbiamo intervenire per fare ciò che va fatto”. Le obiezioni principali sono due. La prima: non è accettabile che gli stessi che la festa l’hanno voluta e organizzata ora pretendano di essere loro a dire agli altri come sistemare, pulire e riordinare. La seconda è che il modo più certo per fare fallimento è rispondere alla crisi con l’automatismo dell’unica ideologia sopravvissuta al post-ideologismo (e per questo invisibile agli occhi dei più): il liberal liberismo. Una delle battute più famose del segretario Felici è che “lo sviluppo non si può fare per decreto”. Cioè, lo Stato deve rimanere fuori dall’economia. Si sbaglia. L’Europa è diventata un continente libero e ricco proprio per il ruolo centrale che gli Stati hanno avuto nell’economia: si chiama keynesismo o socialdemocrazia.
I progetti in cui impegnarsi non mancano: dalla costruzione di un campus universitario a quella di un ospedale all’avanguardia, dai nuovi modelli di stato sociale alle energie verdi, dal riconoscimento delle professioni creative (art director, programmatori, designer, illustratori, artigiani dell’arte, eccetera) alla ricerca tecnologica, dalla demolizione degli orrendi fabbricati della speculazione immobiliare al ripristino del diritto non a una casa qualunque, ma a una casa che abbia dignità architettonica e che stia dentro ad un disegno urbanistico.
Una parentesi di cronaca: un segno piccolissimo ma importante di quel che San Marino potrebbe essere scegliendo la strada del lavoro, della cooperazione e della socialità, io l’ho trovato alla bellissima (perché autentica) manifestazione “A borgo”. Un grazie agli organizzatori.
Qualcuno dirà: non ci sono i soldi. Non è vero. I soldi ci sono, ma finiscono in sperperi o ruberie. E quand’anche non ci fossero uno Stato minimamente coscienzioso avrebbe l’obbligo di indebitarsi così come farebbe qualsiasi genitore per garantire il sostentamento dei propri figli.
Ma c’è da fare una puntualizzazione. Ci sono due tipi di debito. C’è il debito che serve per ripagare altri debiti, che è il debito a cui sta ricorrendo il governo e che ormai ha raggiunto la pericolosa cifra di 400 milioni di euro. E poi c’è il debito che nel tempo si ripaga da solo e che concorre alla produzione della ricchezza. È il debito di cui ha bisogno San Marino.
Come uscirne? Con la politica, ovviamente. C’è un racconto di Giorgio Caproni nel quale il protagonista, un prete, nel finale ha un’intuizione: “non so più agire e prego; prego non so ben dire chi e per cosa; ma prego: prego non, come accomoda dire al mondo, perché Dio esiste: ma, come uso soffrire io, perché Dio esista”. Pregare in politica non serve e niente. Eppure il senso della missione politica è tutto qui. La politica va fatta proprio quando un futuro non lo si vede o non c’è. È un atto contro la rinuncia e la paura. San Marino ce la fa solo se torna la politica. Come direbbe un mio amico (e come diceva anche il mio povero babbo): dai San Marino, cà’glià fem!
Luca Lazzari / Sinistra Unita
Riproduzione riservata ©